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Perche', in fondo, cio' che decide e' il senso che assegniamo alla morte

La questione decisiva, da cui dipende tutto il resto, è molto semplice: che ne sarà di noi dopo la morte? Che cosa significa morire? Dalla risposta a questa domanda (che poi è "la" domanda) dipende tutto, e tutto è in funzione del trovare una risposta a tale interrogativo capitale, al di là del fatto di esserne consapevoli o meno. La cosa che complica la questione è che una risposta ad una domanda del genere non è mai conclusa o definitiva, perché la certezza di una posizione non è mai irreformabile. E poiché essa risposta influenza tutto, il rivedere o cambiare prospettiva sulla questione finisce con l'avere ricadute decisive sulla vita. Se la morte è la fine di tutto è un conto. Fine di tutto vuol dire anche credere che qualcosa rimane ma non l'io consapevole di sé, che continua ad esistere come "singolo". Se abbiano senso e forza valori "eterni" come verità, giustizia, rispetto, altruismo, cura dell'altro quando il destino di tutto e tutti è la fine, il nulla, sinceramente non lo so. Mi viene istintivamente da pensare che se l'arco e la durata è così breve per me, mi voglio dare da fare e godere di tutto, costi quel che costi, lasciandomi guidare da quel persuasivo principio del piacere senza tener conto dei "danni collaterali", dei costi per gli altri. Chi se ne frega di che mondo lascio a chi viene dopo di me, se ne dilapido le risorse, se il mio benessere passa per lo sfruttamento, l'ingiustizia ecc.? Io spero solo di essere fortunato ed esistere in un luogo e in un contesto che mi favoriscano il più possibile. E gli altri? E chi se ne frega! Visto che faremo tutti la stessa fine mi dispiace per loro meno fortunati ma non posso farci niente e sinceramente non mi interessa. Se invece oltre la morte c'è un io (anima, spirito, chiamiamolo come cacchio ci pare), le cose cambiano e si restituisce peso e valore a parole come responsabilità, bene, giustizia, rispetto. Credo che Kant aveva ragione. La virtù morale e l'ordine morale del mondo - nell'autonomia assoluta del bene e della sua determinazione solamente razionale - stanno in piedi, hanno senso solo se c'è anzitutto un'immortalità in cui l'uomo riceve ciò che si è meritato, di cui si è reso degno con i gesti della sua libertà in questo mondo e in questa vita. E ci vuole anche la postulazione di un Dio, cioè di qualcuno che garantisca la ricompensa e la sanzione, perché un ordine morale è tale se non è la stessa cosa fare il bene o il male, cercare la virtù o no. Non a caso la celebrazione assoluta, violenta (in termini di volontà di potenza) dell'io e della vita passa per la negazione gridata della menzogna dell'eternità dell'uomo singolo (dell'anima ecc.). Nietzsche fa proprio questo: si vive solo se si riconosce che la sola, unica, vera vita è quella sulla terra, il resto non può esistere, altrimenti ci impedisce di vivere l'unica vita che abbiamo. Se c'è la distinzione tra ultimo e penultimo, il penultimo sarà sempre in secondo piano e l'ultimo la farà da padrone. Perciò il presentismo passa per la negazione dell'oltre il presente, cioè l'oltre la vita cosciente, biologicamente segnata e costituita. Quale che sia la risposta cercata o riconosciuta, una cosa mi stupisce grandemente: che ciò che è così incerto - il dopo, l'oltre - è allo stesso tempo ciò che più cerchiamo, più drammaticamente ci agita e muove, più terribilmente ci determina, perché in fondo anche quando vivi come se la questione non si ponesse, hai già risposto alla domanda mentre credi di non sentirne più la provocazione. Perché, se la morte è la cosa più naturale di questo modo (nihil certius est quam mors), allora il morire e il vedere morire ci fa tremendamente soffrire e non ci lascia mai indifferenti, ci fa piangere, ci massacra? E perché, se la morte è solo un mero passaggio verso la vita che non solo non finisce ma giunge alla pienezza, essa morte continua a spaventarci e a farci piangere? Nella vita si rimane sempre sospesi, è questa la vertiginosa condizione di noi poveri uomini.

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