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Ritiro di Quaresima

(Larino, 25 febbraio 2024)

 

 

Come già accaduto nel ritiro di avvento, seguendo la meditazione degli esercizi dello scorso anno, anche oggi rifletteremo sulla fede, la parola più preziosa della vita, la più fragile e necessaria, la sola cosa che probabilmente porteremo davanti a Dio al termine della vita, poiché essa è la forma, l'orizzonte, ciò dentro cui dovrebbe starci tutti quello che ho fatto; e se non c'è il contenitore è come se si disperdesse anche il contenuto.

Il valore della fede nasce dal fatto che ciò che decide del senso della vita è reso possibile come realtà efficace nella mia vita dalla fede, poiché, come diceva Lepori proprio alla fine della seconda meditazione: «la fede è la nostra mendicante apertura all'avvenimento di Cristo, è il permesso assetato che diamo a Cristo di far avvenire nella nostra vita la Sua salvezza, il bene che Lui solo può realizzare» (p. 76).

Nel cammino della vita - siamo uomini in cammino (homo viator) - la ricerca del significato delle cose come della vita si compie nel riconoscimento che il senso è qualcosa che puoi solo accogliere se un altro te lo dona, ti si fa incontro. Mi ha sempre colpito l'esempio di Sant'Agostino. Dopo aver pensato per tanto tempo che la verità era l'esito del solo cammino razionale, Agostino comprende che la fede viene prima della ragione, che, cioè, riconoscere l'avvenimento della presenza di Cristo, l'incontro con Lui nella vita, viene prima di tutte le ragioni di questo avvenimento: "se non crederete non comprenderete" (Is 7,9). La scarsa evidenza a volte delle ragioni è perché non crediamo, cioè non ci affidiamo al Cristo, che pur riconosciamo presente.

La fede, dunque, la cosa più preziosa ma anche la più rara: è quanto ci viene attestato anzitutto dai vangeli; una merce rara, tanto che Gesù si chiede se al suo ritorno troverà ancora la fede, ma anche la cosa più decisiva, tant'è che i miracoli che egli compie spesso sono, per così dire, indotti, fatti per lo stupore che Gesù avverte dinanzi alla fede di chi con insistenza chiede e nello stesso tempo si affida. È la fede della donna con la figlia ammalata che non si lascia intimidire dalla risposta di Gesù, è la fede soprattutto del centurione che si mette nelle mani di Cristo a tal punto da non ritenere nemmeno necessario che lui personalmente vada a guarire il suo servo, perché lo potrà fare anche tramite chi lui vorrà. E dove c'è incredulità, come a Nazareth (cf Mc 6), non accade nulla, perché senza fede puoi essere anche testimone delle cose più straordinarie ma sei solo spettatore, esse non ti diranno quello che significano.

Pierre Rousselot diceva che lo sguardo della fede (gli occhi della fede) è come quello che porta un investigatore o uno scienziato. Un fenomeno osservato da due scienziati o un dettaglio considerato da due investigatori, pur essendo lo stesso fenomeno/dettaglio, per uno diventa indizio della legge o soluzione del caso, mentre per l'altro non significa nulla; ecco, la luce della fede non procura oggetti nuovi da vedere o conoscere ma illumina ciò che ci viene incontro per essere conosciuto. Del resto Dio non ha scelto di farsi conoscere con il metodo dell'incontro, cioè dell'avvenimento? Cosa c'è di più umano ed ordinario dell'incontro, dell'accadere di qualcosa? La grandezza della fede è che quell'incontro per te diventa avvenimento, mentre per tanti non significa nulla. Pensiamo sempre alla dinamica dei vangeli. Quante persone Gesù ha incontrato? Non mi riferisco tanto alle folle anonime che lo seguivano perché interessava loro essere aiutati a sbarcare il lunario o a risolvere i loro problemi urgenti e contingenti, ma alle persone che Gesù incontra singolarmente. Tutti spariti, eppure sono stati testimoni o addirittura hanno ricevuto un miracolo, sono stati guariti. È vero che a volte Gesù impedisce a qualcuno di seguirlo, ma tutti gli altri sono spariti! È la fede che trasforma l'incontro in avvenimento, sono gli occhi della fede che fanno scorgere il vero significato di quello che accade oltre al suo mero accadere. Poi è chiaro che uno torna sempre all'inizio, a quella circostanza che ha veicolato con la forza dell'evidenza il mistero. Nella serie The young Pope c'è il cardinale Spencer che sul letto di morte chiede a Pio XIII di ripetergli quell'episodio del miracolo che aveva generato la certezza della fede al punto da consacrarsi nella Chiesa. L'inizio in tal senso è sorgivo, è principio, arché, ma l'inizio deve diventare avvenimento e questo accade per la fede.

I segni esteriori, dice sempre Rousselot, possono essere molteplici; in altre parole le forme con cui Cristo si rivela nella nostra vita possono essere tante: la testimonianza di una persona, il miracolo di una conversione, i gesti della fede (Claudel che si converte durante una liturgia), ma il fatto oggettivo diventa segno (indizio) di altro solo se viene conosciuto sotto un nuovo aspetto, per cui rimanda ad un significato oltre sé di cui è manifestazione. L'illuminazione della grazia è proprio questo guardare le cose con occhi diversi (una nuova facoltà di vedere, un nuovo oggetto formale) e vedere significati che diversamente resterebbero preclusi; in questo modo le ragioni per credere, percepite alla luce della grazia soprannaturale, sono solide ragioni indipendentemente dal potere della ragione discorsiva di stabilire delle rigorose argomentazioni tra indizi e credibilità.

Naturalmente, aggiunge Rousselot, come nella conoscenza naturale più l'intelligenza è agile e penetrante e più da un indizio fragile può indurre con certezza una conclusione, così nella fede più l'anima «è docile alle sollecitazioni dello Spirito Santo, più le sarà facile, per mezzo dei segni ordinari e quotidiani, e non "straordinari" o "miracolosi", giungere all'assenso di fede. È per questo che un'incontestabile tradizione che risale al vangelo loda coloro che non hanno bisogno di prodigi per credere. Non li si loda affatto per avere creduto senza ragioni: ciò sarebbe deplorevole; ma si vede in essi delle anime veramente illuminate e capaci, attraverso un minimo indizio, di cogliere una grande verità» (57); e così tutto per il credente diventa segno che prova la plausibilità della fede, riempendolo di certezza e di pace.

Il riconoscimento del Signore presente in cui primariamente consiste la fede - poiché l'atto originario della fede è riconoscere l'accadere di Cristo come senso delle circostanze che ti sono date - come investe le diverse dimensioni della vita così non è una questione solo di ragione perché accanto all'intelletto è sempre compresa ed implicata l'affezione. È molto interessante quanto la chiesa ha oggettivato sul senso della fede in un particolare momento storico che viveva una temperie culturale in cui il cristianesimo era stretto tra la Scilla del razionalismo e la Cariddi del fideismo. I razionalisti negavano ogni ulteriorità della fede rispetto alla ragione, per cui l'evidenza della fede era una questione di sola ragione (ponendo una domanda grande su cosa restasse della libertà sul versante umano e della grazia sul versante divino). I fideisti dal canto loro negavano valore alla ragione, come se la fede per essere abbracciata non avesse bisogno di essere compresa, rischiando così di trasformarsi in un atto irragionevole, cioè senza ragioni. Per riprendere Is 7,9, i primi volevano comprendere senza credere (o pensavano che il comprendere fosse già o almeno sufficiente per il credere) mentre i secondi pensavano di poter credere senza comprendere, lasciando alla fede il compito che spettava alla ragione.

Ebbene in questo contesto complesso e rischioso il Concilio Vaticano I (siamo nel 1870) ribadì alcune cose che conservano tutto il loro valore. Intanto una definizione della fede: il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà a Dio che si rivela; tradotto in un linguaggio più familiare per noi, la fede come sequela che accade con tutta la tua umanità (ragione ed affezione) a Cristo che si fa presente nella tua vita. Il contenuto di questa fede è Dio stesso e la sua realtà, cioè cose che per definizione oltrepassano del tutto (omnino) quello a cui tu puoi arrivare, quell'amore di Cristo che, come ripete san Paolo nel brano citato agli Esercizi, supera ogni conoscenza. Proprio perché nella fede riconosci Cristo presente nella tua vita, questa fede è una "virtù soprannaturale", cioè è grazia, proviene dall'aiuto della grazia e dal dono dello Spirito.

La fede dunque non è una questione principalmente di ragione, infatti si possono avere tutte le ragioni di questo mondo ma senza la grazia di Dio non si può credere. Se la fede come risposta libera dell'uomo a Cristo che ti viene incontro ("oggi devo fermarmi a casa tua") non è ex ratione, non è neppure sine ratione, piuttosto, come ripete il Concilio, è un "sentire con la ragione", cioè è qualcosa di conforme alla ragione: consentaneum rationi.

Proprio perché la fede non è il sacrificio della ragione ma è conforme alle esigenze della ragione, la ragione deve interrogarsi sull'avvenimento, mostrarne la plausibilità, il perché valga la pena dire sì a Cristo. E questa verifica (della fede) non è un fatto interiore/soggettivo ma un fatto esteriore/oggettivo, cioè la fede si argomenta con prove, fatti, che attestano che il senso di quello che ci accade è Cristo. Certo non possiamo demonstrare ma solo probari, cioè mostrare, perché la fede rimane un atto ultimo di libertà e un dono. Nella fede c'è chiaramente un primato della grazia ma che non va a detrimento del carattere umano della fede. Il concilio poi aggiunge che un grande segno di credibilità della fede è la testimonianza della Chiesa, il "miracolo attuale"; e del resto è proprio così, la verità della fede risplende con chiarezza ed evidenza più che nelle nostre argomentazioni nella testimonianza vivente di alcuni che dentro un popolo hanno talmente preso sul serio la fede nella vita al punto che essa è diventata capace di in-formare la vita, di rendere la vita con-forme (cioè della stessa forma) della fede. Si chiama santità! È facile depennare la questione guardando agli scandali (come se nella chiesa gli uomini che vi appartengono avessero smesso di essere uomini cioè peccatori), è molto più difficile non avvertire la provocazione di un'umanità resa diversa dalla forma della fede. Perché la vera questione è come la fede in Cristo fermenta la nostra posizione nella storia.

Per il fatto stesso che la fede deve diventare - non lo è ancora - la forma della vita, la fede allora si configura come un cammino, non un evento puntuale. Ed un cammino ha un inizio, al quale sempre torni, una direzione e tappe, approdi, punti di ristoro, fatiche, che lo definiscono. La vicenda degli apostoli da questo punto di vista è esemplare anche per noi. Un cammino che ha un inizio, l'incontro, l'essere chiamati da Gesù ("venite e vedrete", "Zaccheo scendi, oggi devo fermarmi a casa tua", "ne chiamò quanti ne volle") e una strada lunghissima da percorrere nella quale l'evidenza, l'imponenza della presenza di Cristo fatica a generare un io nuovo, a in-formare la vita di quegli apostoli che pure avevano lasciato tutto e lo avevano seguito. L'incredulità disarmante degli apostoli, raccontata soprattutto dal vangelo di Marco, è incredibile; non c'è un apostolo che Cristo lodi per la sua fede (solo Pietro nella versione di Mt per la sua confessione di fede a Cesarea di Filippi, confessione che però non proviene da lui ma dallo Spirito); sono sempre gli altri, gli estranei, addirittura i pagani (come la donna siro-fenicia o il centurione) che impressionano Cristo, non gli apostoli e questo non all'inizio ma fino alla fine, fino alla domanda di Tommaso: "Signore mostraci il padre e questo ci basta", fino al sonno nell'orto degli ulivi, fino allo sparire nel momento dell'arresto, con una dinamica di "dubbio" che arriva fino al congedo definitivo raccontato da Mt 28,16-20, quando all'ennesima e forse ultima manifestazione "fisica" di Cristo gli apostoli "dubitano", pur essendosi prostrati (prostrarsi è un gesto che si fa verso Dio nella Scrittura). Ma non è ancora finita, basti pensare allo scontro tra Pietro e Paolo, alla fatica di tenere insieme le due anime della Chiesa (quella di matrice giudaica e quella poi prevalente di convertiti provenienti dal paganesimo), tanto che ci vuole un Concilio per mettere ordine, anche se poi le decisioni di quel Concilio vengono superate dai fatti (cf At 15), alla superbia di Paolo (a cui Cristo deve rispondere "ti basti la mia grazia"), alle prescrizioni che lasceranno il tempo che trovano. Solo alla fine si con-formeranno a Cristo, al punto da dare letteralmente la vita per lui, e da riconoscere, come fa Paolo, "ho conservato la fede".

 

La fede come forma della vita, che in-forma la vita; San Paolo direbbe "abbiamo il pensiero di Cristo", come scrisse alla Comunità di Corinto che si aspettava parole belle e argomentazioni sottili e persuasive secondo la misura della sapienza di questo mondo, mentre Paolo portava solo la debolezza e la follia della croce (cf 1Cor 2,1-16). Che cosa concretamente questo significhi ci è indicato nella preghiera di San Patrizio che Lepori citava agli esercizi: cf p. 56. Siamo ovviamente lontani anni luce da una cosa del genere, noi abbiamo altre priorità e preoccupazioni; tutte fortemente legittime, ci mancherebbe!, dai figli alla salute, dal lavoro alla carriera, dagli amici agli hobby, dall'essere riconosciuti a gestire un po' di potere, dagli amici ai parenti ecc. Anche se Cristo non è ancora diventato la forma della nostra vita una domanda ce la dobbiamo porre: come in questi mesi, in questo tempo, ho permesso che la mia vita fosse informata dalla fede; in altre parole che passi ha fatto la fede in me?

La quaresima è un tempo particolare che ci deve ridestare questa domanda, ci deve far chiedere con insistenza il dono della fede come forma della vita. Ricordiamocelo sempre: la fede è grazia e dunque non puoi che chiederla ma la grazia è efficace se la libertà l'accoglie, per cui se non c'è l'impegno dell'io, quella grazia non entra, non fermenta, non cambia. San Tommaso lo aveva capito benissimo quando sinteticamente scrisse che gratia non tollit sed perficit naturam, la grazia non cancella quello che c'è prima (l'umano) ma lo compie, gli dà pienezza e forma definitiva al punto tale, nell'altro mondo, da rendere la natura umana capace di vedere l'essenza di Dio, superando quello scarto necessario che esiste tra oggetto da conoscere e capacità di conoscere, per cui ciò che è totalmente intellegibile come Dio rimane solo parzialmente (ed esteriormente) conoscibile dalla nostra facoltà conoscitiva. Non gratia sive natura (saremmo dei pelagiani), non gratia sine natura (saremmo dei fideisti) ma gratia cum natura.

 

E lo strumento che ci viene offerto come aiuto è in quelle tre parole che hanno scandito l'inizio della quaresima, il mercoledì delle ceneri: preghiera, digiuno, elemosina. Anzitutto la preghiera come domanda di salvezza: "o Dio vieni a salvarmi!", come richiesta urgente a Cristo che sia riconoscibile nel tempo che ci è dato, che al termine della giornata io possa dire, come gli apostoli nel vangelo di questa domenica, "è bello per noi stare qui", dove la bellezza dello stare dipende totalmente dalla bellezza, dall'imponenza della Sua Presenza. Accanto alla preghiera il digiuno: quando vai all'essenziale e non ti lasci distrarre da ciò che non conta puoi fare spazio a Cristo. Se la vita è già sazia e piena non c'è forma e spazio per Cristo. Il digiuno non è questione di cibi o bevande, è questione di rinuncia a qualcosa a cui teniamo particolarmente, non per una sterile quanto inutile mortificazione ma perché quel vuoto lasciato sia riempito da una coscienza più grande e grata del mistero presente di Cristo nelle nostre vite. Infine l'elemosina, che non è la pietà, ma è la compassione del buon samaritano, è il calarti nei panni dell'altro, è il prenderti cura del suo bisogno perché ti sta a cuore il suo destino e questo può accadere solo se guardi e impari lo sguardo di Cristo a partire da come egli ha guardato a te.

La quaresima è anche un tempo di memoria; non a caso nell'ufficio delle letture del breviario dall'inizio della quaresima si legge il Libro dell'Esodo, che è il libro che racconta la memoria e l'evento fondatore di Israele, come a dire che per vivere il presente devi sempre tornare alla memoria dell'inizio, la "prima Galilea", il luogo/momento da cui tutto è iniziato, il miracolo della fede, del riconoscimento dell'avvenimento di Cristo nella nostra vita. Il tempo dunque della memoria dell'inizio come pure di tutto ciò che ha dischiuso la verità dell'inizio: incontri fatti, grazie ricevute, momenti di svolta, insomma la vita riletta con gli occhi dell'oggi perché il presente non è l'affievolimento dell'inizio ma ciò che sostanzia di verità e di valore l'inizio.

 

Ora il frutto della fede che informa la vita è l'unità; questa, come ci ricordava Lepori, è l'opera che l'avvenimento di Cristo realizza in noi (cf p. 64). L'unità è la preghiera ultima di Gesù, l'ultima richiesta al Padre per gli apostoli e per noi, poiché Gesù chiede l'unità al Padre non solo per quei dodici ma anche per "quelli che per la loro parola crederanno in me" (Gv 17,20-21). L'unità è la cosa più difficile, la grazia più complicata da accogliere, da qui la preghiera insistente di Gesù al Padre, perché nell'unità si gioca tutto: "siano una cosa sola perché il mondo creda che tu mi hai mandato" (17,21). Unità tra noi, unità nella sequela ai pastori (con Cristo, cioè con la Chiesa); solo così, come ci ha scritto Papa Francesco, si custodisce la fecondità del carisma dato dalla Spirito a don Giussani. Non scandalizziamoci se l'unità non c'è e la dobbiamo chiedere. Nulla di nuovo sotto il sole, basti pensare a quello che succedeva a Corinto. La comunità cristiana di Corinto era molto vivace e progressista, succedevano cose che scandalizzerebbero anche noi (da chi andava a messa ubriaco a chi aveva condotte pubblicamente e gravemente immorali), ma soprattutto era una comunità che aveva la puzza sotto il naso, come si suol dire, all'interno della quale c'erano alcuni probabilmente intellettuali che facevano grande presa su un gruppo di persone né sapienti, né potenti, né nobili (da un punto di vista umano) e che guardavano con sospetto se non addirittura con scherno alla predicazione di Paolo che aveva anche la lingua impacciata, non era un oratore ammaliante, non procedeva con ricchezza e sottigliezza di argomentazioni ma predicava semplicemente e senza glosse il vangelo di Cristo crocifisso "scandalo per i Giudei e stoltezza per i Pagani". Ad alcuni questo non bastava e si erano create le fazioni: io sono di Paolo, io sono di Pietro, io sono di Apollo, come se la sua autorità di apostolo non fosse sufficiente ma dovesse dipendere dal giudizio umano di chi lo ascoltava, che preferiva riferirsi ad altri che apparivano più persuasivi e convincenti. Paolo interviene subito, all'inizio della Prima Lettera per mettere le cose in chiaro precisando che si appartiene solo a Cristo e chi non parte da questo, chi attenta alla comunione, è perché non ha fede. Se ogni appartenenza umana non ci serve a crescere nell'appartenenza a Cristo non serve.

Ma come si costruisce l'unità? Con l'obbedienza!