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Dialogo di Tristano e di un amico ovvero del coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, di mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimulare nessuna parte dell'infelicita' umana ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa ma vera

"Io aveva fitta in capo questa pazzia, che la vita umana fosse infelice, anzi infelicissima"

Il dialogo di Tristano con un amico si riassume già nel nome del protagonista, quel Tristano che lungi dal rimandare al personaggio della storia medievale indica come significato la tristezza, la tristezza che accompagna la constatazione di quell'idea fissa e vera, oltre la quale non c'è possibilità di andare: la vita umana è infelice, anzi infelicissima; quando si è convinti di questo rimane solo malinconia, s-consolazione e disperazione. Ma anziché considerare questa idea nella sua verità, gli uomini la giudicano una pazzia. Perché? Perché se si dovesse vivere con la coscienza di questa cosa non si potrebbe vivere davvero, e perciò si deve preferire la menzogna alla verità, si deve occultare la verità screditandola e sottraendone credibilità (come accade quand'essa viene considerata detta da chi è affetto da infermità mentale), perché altrimenti non si vive: solo la distrazione rispetto al vero rende vivibile la vita. Perciò gli uomini, poiché desiderano vivere, devono credere non a ciò che è vero, e che contraddice la bontà del desiderio ma non può cancellarlo (dunque dovendolo conservare bisogna che non infeliciti la vita), ma a ciò che fa loro comodo e cioè: che la vita è bella e pregevole, che non è vero che gli uomini non sono nulla, non sanno nulla e non hanno nulla da sperare. Solo la felicità e il bene, come possibilità rispetto al desiderio, rendono possibile la speranza senza la quale non si può vivere. Ma rifiutando la verità, gli uomini si rivelano per quello che sono: superbi (si credono chissà chi) ma anche allo stesso tempo codardi, deboli, d'animo ignobile e ingiusto, pronti a barattare la negazione con qualunque cosa, finanche a vivere di credenze false che però giudicano essere le più fondate e solide del mondo.

Ed è proprio questa vigliaccheria che riempie di sdegno il poeta, una vigliaccheria che accetta la consolazione e l'inganno puerile mentre invece l'uomo vero, degno di questo nome, coraggioso e autentico, non fugge dinanzi alla verità ma ha il coraggio di sposare e accettare una filosofia dolorosa ma vera, che dissimula gli inganni dell'intelletto, che si mostra impavida nel sostenere l'assenza di speranza, che senza disperazione accetta la dis-perazione, che guarda in faccia il deserto della vita e non si nasconde nessun aspetto dell'infelicità umana.

Nel sostenere questa filosofia dolorosa ma vera (che riconosce che la vita umana "sia una gran brutta cosa") Tristano-Leopardi non è da solo, non dice nulla di nuovo sotto il sole: egli è in compagnia di Salomone e di Omero, dei poeti e dei filosofi che incessantemente hanno cantato l'estrema, irredimibile infelicità umana ora dicendo che l'uomo è il più miserabile, ora che è meglio non nascere e se si deve proprio nascere la cosa più augurabile è morire nella culla o morire giovani. Si tratta, direbbe G. Vico, di una sorta di "sapienza riposta" nella cui compagnia il poeta si colloca giudicando severamente la "boria dei dotti" (per usare un'altra espressione vichiana) della filosofia falsa del sec. XIX. E qui si scatena il sarcasmo verso la filosofia illuministica della modernità compiuta, che celebra le sorti meravigliose e progressive dell'umanità, che si ritiene ben al di sopra delle filosofie degli antichi. Il poeta smaschera la pochezza che fa del sec. XIX un secolo in tutto di poco più che bambini rispetto agli antichi, anche nella morale e nella metafisica, un secolo inetto che pensa allo spirito e trascura il corpo finendo così con il rovinare anche lo spirito, che celebra i giornali uccidendo la letteratura e lo studio, che osanna le masse, che quanto più scrive tanto meno vale quello che si scrive. Un secolo pavido, da ragazzi, d'ignoranti impostori e presuntuosi, di gente che ormai non ha più nemmeno la dignità della mediocrità ma che eccelle sugli altri perché regnano inettitudine e nullità, e così, «mentre tutti gl'infimi si credono illustri, l'oscurità e la nullità dell'esito diviene il fato comune e degl'infimi e dei sommi».

È un giudizio severo quello del poeta, che non salva nulla del suo tempo e della sua sconfinata ipocrisia, che considera grandezza la menzogna e la pavidità dei fanciulli smidollati senza virtù. Il poeta è ormai sveglio, ha abbandonato non, alla Kant, il sonno dogmatico ma l'illusione della vita; l'apparir del vero lo ha restituito alla vera condizione umana, conclusasi ormai la favola della vita. E se la verità va guardata in faccia, se non si può che sputare sopra la vigliaccheria degli uomini che vengono a patti col destino e preferiscono le illusioni al gelido vero, allora dinanzi alla certezza ultima che "il non vivere è meglio che vivere", non si può che stoicamente desiderare la morte per affermare così il non senso della vita nella sua insuperabile infelicità, nonostante lo struggente e inestirpabile desiderio di felicità: «non mi sottometto alla mia infelicità né piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini; e ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta credo fermamente che non sia desiderata al mondo se non da pochissimi». Nemmeno un anno dopo, con la potenza più espressiva del verso, il poeta invocherà la morte affinché non si attardi ma chiuda alla luce i suoi occhi tristi, tuttavia egli lo farà "erta la fronte, armato, e renitente al fato" (Amore e morte).

Quando si è giunti ad una simile consapevolezza e decisione allora si è maturi per la morte e al rabbrividire al solo pensiero di dover ancora vivere a lungo si accompagna il presentimento che l'ora della morte sia vicina e, paradossalmente, questo presentimento diventa il solo pensiero che lo sostiene. Tristano è alla fine di tutto e volgendosi indietro, mentre ribadisce l'inutilità e vanità di tutto ciò che ha fatto o provato (libri, speranze di gloria e d'immortalità, invidie ecc.), non ha nessun rimpianto se non l'invidia per i morti, la cui sorte cambierebbe volentieri con la sua. Non c'è via d'uscita ma nella solitudine cosmica che investe il poeta che ha conosciuto la verità, nulla può distrarlo dall'attesa e dal desiderio della morte, l'unica che potrà riconciliarlo col destino; nessun rimpianto, nessun turbamento guardando ai ricordi, nulla che sia preferibile alla morte oggi, nemmeno la fortuna o la fama (senza le macchie) di Cesare e Alessandro. Solo la morte potrà riconciliare il poeta ed è lei l'unico contenuto di speranza secondo la chiusa di Amore e morte: «null'altro in alcun tempo/ sperar, se non te sola;/ solo aspettar sereno/ quel dì ch'io pieghi addormentato il volto/ nel tuo virgineo seno».

Aleggia lo spettro del suicidio quale esito necessario per porre fine all'infelicità e del resto già nel 1819 Leopardi aveva scritto: «Quando l'uomo veramente sventurato si accorge e sente profondamente l'impossibilità d'esser felice, e la somma e certa infelicità dell'uomo, comincia dal divenire indifferente intorno a se stesso, come persona che non può sperar nulla, né perdere e soffrire più di quello ch'ella già preveda e sappia. Ma se la sventura arriva al colmo, l'indifferenza non basta, egli perde quasi affatto l'amor di se o piuttosto lo rivolge in un modo tutto contrario al consueto degli uomini, egli passa ad odiare la vita l'esistenza e se stesso, egli si aborre come un nemico, e allora è quanto l'aspetto di nuove sventure, o l'idea e l'atto del suicidio gli danno una terribile e quasi barbara allegrezza» (Zibaldone, 87).

Commenti

Maria Pia Ascione 18 Agosto 2013

Che allegrone! E' l'amico ideale per tirarti su se hai un problema! 

Dopo aver parlato con lui o ti suicidi (almeno sei coerente) o lo schiacci sul muro come fa Pinocchio con il grillo parlante. Credo che non sia possibile comprendere la profondità del pensiero leopardiano decontestualizzandolo dalla sua vicenda umana e personale. Mi inchino alla sua grandezza ma non scorgo il chiarore della Rivelazione nel suo orizzonte. A mio avviso, è stato un uomo che è vissuto (male) senza speranza e, se non ha avuto pretese di avere la verità in tasca, è stato un uomo già morto alla vita anzitempo (La Ginestra non lo riabilita perché in fondo è come dire "mal comune mezzo gaudio")

Certo, ci sono modi diversi per reagire all'indubbia presenza nella vita del male e della morte. Nel mio caso, conseguentemente alla mia vedovanza dopo quasi quarant'anni di vita insieme, invece di infrangermi su qualche scoglio, mi sono iscritta alla facoltà di cui Lei è Preside proprio perché voglio capire se la vita ha un senso.  Ma non mi accontento di una "buona parola", voglio andare a fondo. Per questo voglio ascoltare "tutte le campane". Come suggerito, ho acquistato e letto interamente il libro di Sam Harris (e di un altro paio di autori atei di cui al momento non ricordo il nome). Credo che la Teologia, soprattutto la Teologia Fondamentale, oggi debba rispondere proprio a queste persone, non solo stare sulla porta, ma entrare nella loro casa per comprenderli fino in fondo ed esprimendosi con il loro stesso linguaggio,  proporre un'alternativa convincente per loro smettendola una buona volta quell'atteggiamento autoreferenziale in cui "gira, gira" tutti cadono. A questo proposito leggendo il recente documento firmato dai due Papi (anche se l'intero documento sembra essere stato scritto da Papa Ratzinger, tranne qualche rara eccezione). pur non ricordando bene tutto il testo ho notato che c'è un'affermazione di principio che vuole la Chiesa depositaria dell'unica verità: su queste basi è difficile dialogare con chiunque. Ho avuto l'impressione che nonostante la Sua gentilezza e le Sue parole così misurate e soavi, si nasconda un lupo travestito da agnello. Forse dipende dalla sua formazione tedesca o forse mi sbaglio ma in questo caso Voi "mi corigerete".  (è già la seconda volta che mi inserisco nel Suo blog: sto esagerando e giuro che non lo farò più!). Scusi l'invadenza e abbia un buon periodo di vacanza.

Maria Pia Ascione

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