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"Per tanto rimango privo di ogni speranza"

Con il Dialogo della natura e di un islandese siamo dinanzi ad una delle operette tra le più famose di Leopardi, di quelle poste nella categoria della critica spietata alla natura, tramontata la parentesi della considerazione positiva verso la natura (la natura benigna). Il dialogo colpisce ed atterrisce non solo e non tanto per l'intensità della denuncia, la percezione disperata e sconsolata del destino amaro degli uomini, la gridata accusa alla natura, ma anche per l'indifferenza ultima dell'essere che non si limita ad ignorare il grido dell'uomo ma quasi si compiace sadicamente nel lasciare impunemente l'uomo essere divorato dalla negazione del suo desiderio di felicità, che tanto lo arrovella quanto lo fa soffrire. È un islandese, piuttosto avvezzo alla durezza della natura dato il clima della sua terra, che s'imbatte proprio in colei da cui fugge. Questo incontro ravvicinato diventa l'occasione per uno sfogo ma anche per una dura accusa a colei dietro alla quale o nella cui metafora-immagine si nasconde il senso dell'essere e della realtà; la natura infatti incarna il principio del reale, l'essere stesso delle cose. Più che di un dialogo si tratta di un quasi monologo, un racconto-sfogo in cui l'islandese ripercorre il suo tentativo fallito di fuggire da colei che nel fare l'uomo l'ha voluto sofferente e angosciato. All'islandese è bastato vivere poco per realizzare ed essere persuaso della vanità della vita e della stoltezza degli uomini; l'esordio biblico di Qoelet viene indirettamente ripreso nell'affermazione disincantata circa la frivolezza delle cose e la stupidaggine umana; una stoltezza che si evidenzia nel ricercare e lottare per piaceri che non dilettano e per beni che non giovano. Più l'uomo si arrovella nel cercare la felicità, più la sua opera è sterile e vana, anzi gli uomini "tanto più si allontanano dalla felicità, quanto più la cercano". Dinanzi alla constatazione della vanità e dell'inutilità dell'umano affannarsi per cercare qualcosa che è negata, che, addirittura, più la si cerca più si allontana, la soluzione prospettata dall'islandese sembra la stoica atarassia declinata come rifuggire ogni agitazione, starsene alla larga dalla tentazione umana di affannarsi, cioè vivere una vita oscura e tranquilla tenendosi lontano da quei patimenti che non valgono la pena perché non possono in nessun modo procurare il piacere. Poiché la vita è vana, nel senso che non concede quello che promette, lottare non vale, meglio arginare i danni, vivere la quiete e la ferialità senza desiderio ("deposto ogni desiderio") dal momento che dietro ogni desiderio si nasconde la tensione alla felicità e si prospettano frustrazione e sconfitta. Tuttavia la ritirata in buon ordine non è semplice da mettere in atto. Anzitutto occorre lasciare la società umana, scegliendo la solitudine, come ben offre l'Islanda, che diventa rifugio solitario ma anche fonte di travaglio a causa delle impervietà (freddo, fuoco, ecc.) e delle paure legate ai fenomeni naturali (tempeste, eruzioni, incendi delle case). Sono i disagi a cui l'uomo di solito non bada quando è preso dai pensieri della vita civile e dalle avversità ben più gravi e serie, ovvero quelle che provengono dagli uomini. Preoccupato solo di "non offendendo non essere offeso e non godendo non patire", in un primo momento l'islandese ritiene che il disagio che la realtà naturale provoca all'uomo possa trovare nell'uomo una responsabilità ultima ("difficoltà e miseria da doversi imputare non a te [natura], ma solo a essi medesimi") avendo egli abbandonato quelle terre che uniche erano stare destinate a lui per vivere bene. Convinto di ciò l'islandese intraprende un errare da un luogo all'altro, ma scopre, purtroppo, che ovunque ci sono disagi, ovunque assalti verso gli uomini incolpevoli, "non rei di nessuna ingiuria" verso la natura: caldo ai tropici, freddo ai poli, aria incostante nei climi temperati, terremoti e vulcani dove l'aria è buona, venti e turbini, neve, pioggia, frane, fiumi in piena, tutti fenomeni che, annota l'islandese, "m'inseguivano come fossi colpevole verso loro di qualche ingiuria"; e ancora: bestie selvatiche, serpenti velenosi, insetti mortiferi, "pericoli giornalieri sempre imminenti e infiniti di numero" e diverse malattie che provocano dolore. Non solo ci sono questi disagi ma, il che è ancora peggio, non c'è compensazione di salute rispetto ai mali che si sopportano, anzi quelle cose naturali che più sono vitali, come il sole e l'aria, più ci "ingiuriano". La sproporzione è tale che mentre la pena accompagna ogni giorno la vita dell'uomo (sentiamo qui un'altra eco del sapiente biblico quando ripeteva "a ciascun giorno la sua pena"), il godimento è sempre rado. Nel crescendo drammatico di riconoscimento e denuncia del dolore, tuttavia, ciò che "taglia al testa al toro", che toglie ogni speranza è la contraddizione sadica che colpisce al cuore ogni possibilità di bene: la decisa e insaziabile avidità verso il piacere, senza il quale la vita appare imperfetta (non è vita), ma anche la nocività di questa avidità che anziché soddisfare la vita, è quanto di più contrario ci sia per la vita, per la sua qualità e la sua durata. Il lungo cahier de doléance conduce ad una sola conclusione: la natura è la nemica scoperta degli uomini e degli altri animali e di ogni cosa, "carnefice della sua propria famiglia, del suo sangue e delle sue viscere". Dinanzi all'esperienza del dolore, del patire, dell'infelicità, l'amara scoperta che colei che ti poteva aiutare come madre in realtà è lei stessa a volere, come regista, questo cumulo ineliminabile di dolore; resta l'affranta constatazione: "per tanto rimango privo di ogni speranza". Tutto mira a negare, ad appesantire, a far soffrire nel condurre la vita infine verso quel vero e manifesto cumulo di male che è la vecchiaia, il tempo ampio della decadenza. Allo sfogo dirotto e addolorato dell'islandese la natura risponde indifferente: è legge dell'universo che nel suo perpetuo circuito di produzione e distruzione, entrambe necessarie, ci sia sempre qualcuno che soffra; Leopardi lo annota nello Zibaldone: «il fine della natura universale è la vita dell'universo, la quale consiste ugualmente in produzione conservazione e distruzione dei suoi componenti, e quindi la distruzione di ogni animale entra nel fine della detta natura almeno tanto quanto la conservazione di esso, ma anche assai più che la conservazione, in quanto si vede che sono più assai quelle cose che cospirano alla distruzione di ciascuno animale che non quelle che favoriscono la sua conservazione» (4130). Non c'è solo il rifiuto a pensare che l'uomo abbia una condizione privilegiata in questo mondo, e che, addirittura, questo se ne prenda cura in special modo, ma c'è l'insopportabile verità dell'indifferenza di fronte al soffrire, del patire necessario in un ingranaggio dove quello che l'io prova e lo attanaglia non ha nessun valore, è dettaglio trascurabile ed inutile rispetto ad un processo che se ne infischia di coloro che per il fatto che ci sono lo fanno sussistere e procedere. Ma allora: se le cose stanno così, a che serve? "A chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell'universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?". Ci può anche stare che l'uomo non sia lo scopo del mondo, ma che senso ha quell'indifferenza della natura che non si accorge né del bene né del male, che non ha cura di ciò che essa ha posto in essere? E qui la visione tragica dell'islandese raggiunge l'acme: "t'ho forse io pregato di pormi in questo universo?" L'essere è male perché l'esistenza è dolore, è negazione di se stessa; ed è un male abissale perché si realizza sulla pelle di chi non può non scegliere di non esistere ed esistendo non può non scegliere di desiderare di essere felice. L'impossibile felicità, il dolore e l'infelicità dispiegano la contraddizione evidente e inspiegabile nell'ordine delle cose e nel modo dell'esistenza: il non poter in nessun modo non avere come necessario, perpetuo e solo fine naturale la felicità e non poterla mai conseguire, non essendo possibile in natura. Una contraddizione spaventevole, "ma non perciò men vera; misterio grande, da non potersi mai spiegare se non negando" gli stessi principi primi, l'idea stessa di intelligibilità dell'essere, di senso del tutto. Nello Zibaldone viene esplicitata l'amara certezza (cf 4128-4129). Il dramma dell'universo è la domanda, è il grido profondo e disperato che, tuttavia (come a rendere ancora più tragico il senso) non commuove nessuno, perché la natura è del tutto indifferente e il destino della necessità stende la sua ombra di nulla. È il soffrire inutile cui la morte per caso (tramite i leoni o forse il vento, come accade per l'islandese) pone fine senza lenire e senza rispondere. Che la vita sia male è corollario al male che è nell'essere il quale manifesta la sua negatività nel fare esistere l'uomo come domanda di bene e di felicità. Lo Zibaldone ribadisce la conseguente identità fra vita e infelicità: «Siccome la felicità non pare possa sussistere se non in esseri senzienti se medesimi, cioè viventi; e il sentimento di se medesimo non si può concepire senza amor proprio; e l'amor proprio necessariamente desidera un bene infinito; e questo non pare possa essere al mondo, resta che non solo gli uomini e gli animali, ma niun essere vi sia, che possa essere nè sia felice, che la felicità (la quale di natura sua non potrebb'essere altro che un bene ossia un piacere infinito) sia di sua natura impossibile, e che l'universo sia di propria natura incapace della felicità, la quale viene a essere un ente di ragione e una pura immaginazione degli uomini. E siccome d'altronde l'assenza della felicità negli esseri amanti se medesimi importa infelicità, segue che la vita, ossia il sentimento di questa esistenza divisa fra tutti gli esseri dell'universo, sia di natura sua, e per virtù dell'ordine eterno e del modo di essere delle cose, inseparabile e quasi tutt'uno colla infelicità e importante infelicità, onde vivente e infelice sieno quasi sinonimi» (4137). Non c'è più alcuna speranza: il gelo liberatore e spettrale del nulla copre con la sua inutilità la tragedia che pone in essere. Quante volte ci sentiamo ripetere che la vita è dono, che la vita è indisponibile, che la vita è bene? Eppure, ho scelto forse io di vivere? mi è mai stato chiesto un parere a voler esistere? Può essere dono qualcosa che provoca male e sofferenza? Può esservi il bene dietro un dono che rimanda ad un donatore che è male in quanto il dono provoca male? Può essere mai buono qualcuno che nella sua indifferenza lascia all'uomo di essere il più sofferente, la vittima più grande perché lui, e solo lui, è autocoscienza, è consapevolezza? E allora forse l'uomo paradossalmente ridiventa il fine della realtà, di un essere concepito come male; chi è male vuole il male sotto la parvenza del bene e l'uomo configura il luogo in cui si compendia il fine di male, in cui l'essere come male raggiunge tutta la sua tragicità: instillare il bisogno irrinunciabile della felicità e rendere l'uomo certo dell'impossibilità della felicità. È una negatività radicale, che toglie il respiro e lascia un baratro d'irredimibile disperazione.

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