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La fatica di fare il prete

Ci sono occasioni nella vita in cui essere o “fare” il prete si mostra alquanto difficile; ci sono momenti in cui, come canta Ligabue, “ho perso le parole”, in cui non solo senti tutta la tua inadeguatezza ma ti accorgi anche che qualcosa nel puzzle perfetto della fede non funziona o quanto meno non sai mostrare che funziona. Accade quando magari devi celebrare il funerale di un uomo di 52 anni che muore improvvisamente stroncato da un infarto e lascia nello sgomento e nello sconforto la moglie e due figli ragazzi. E non sai che cosa dire quando ti tocca predicare. Come spiegare questo fatto, come rendere ragione della morte, di questa morte alla luce della fede. Certo puoi dire che Dio si è fatto uomo, che ha preso su di sé la natura umana, che nella condivisione totale fino alla morte Egli ha redento il male, ha cancellato la morte, tutte cose vere (per chi ci crede) ma la provocazione della situazione rimane. Considero rivoltante l’idea di pensare che uno muore perché Dio lo rivuole, perché era giunta la sua ora, perché era pronto: mi sembrano tutte solo sciocchezze. Come conciliare Dio e una morte simile? Potremmo dire che la realtà è autonoma, che Dio non sta lì ad impedire che il male accada, che la colpa è nostra, ok ma allora non potremmo ascrivere a Dio neanche il bene, perché se non è responsabile del male perché dovrebbe esserlo del bene che facciamo noi? Come fai a dire a un ragazzo che la morte del padre è un evento brutto e doloroso ma non di disperazione e, soprattutto, come fai a farci entrare Dio in modo credibile, in un modo che siano date ragioni in grado di sostenere il dolore nella prova? Se Dio è fuori, è fuori sempre ma se è dentro, le cose si complicano, non si semplificano. Non puoi che riconoscere il mistero che la vita è, ma è un riconoscimento che non appaga, non è la domanda del pastore celebrata dal poeta, né l’esclamazione dello stesso Leopardi davanti al monumento sepolcrale di una bella donna: “Misterio eterno dell’esser nostro!” ma il riconoscimento sconfortato che la realtà è un casino e che noi, forse, come diceva Pascoli, non siamo altro che “un atomo opaco di male”, testimoni inermi di quell’infinita vanità del tutto che non stupisce ma angoscia, non fa celebrare ma bestemmiare.

Commenti

Mila 6 Giugno 2007

Mi permetto anche io di citare qualche parola di un brano di Ligabue (Lettera a G.), dedicato ad un suo cugino scomparso dopo una lunga malattia: "Nessuno mai è pronto quando c'è da andare via" e continua "Il destino ha la sua puntualità".. Se è difficile per un prete predicare in particolari situazioni, pensate a quanto sia dura per noi giovani, che rappresentiamo la speranza e il futuro tener viva la fiaccola della fede! La crudeltà di questo tipo di eventi inattesi ci spiazzano, e allora ci rifugiamo quasi per giustificare o ammorbidire la negatività delle situazioni nel detto "Ognuno è artefice del proprio destino"..ci crediamo in parte e perchè come dicevo ci fa comodo. Mi stupisce un pò questo sfogo duro e crudo da parte di un prete. Non mi fraintenda, siamo umani per carità, anche Cristo in croce prima di morire disse "Mio Dio perchè mi hai abbandonato", ma mi spiace cogliere questa amarezza perchè cerchiamo sempre conforto nella fede e nelle parole di un sacerdote. Concludo con un'altra frase di Ligabue "Nonostante tutto vale la pena vivere"

 

Adriano 2 Luglio 2007

A differenza di Mila, di cui condivido in pieno le parole sulla speranza dei giovani ma anche sulla crudeltà dell'inatteso, penso che le considerazioni di don Antonio suggeriscano esattamente il contrario dello sconforto. Un sacerdote che accetta di stare pienamente nel mondo e di camminare con noi "usque ad mortem" - fino alla morte di tutte le certezze, compresa quella certezza così estrema che è la nostra carne viva - dovremmo sentirlo ben più vicino di un presbitero che ha sempre le parole (talvolta sovrapposte persino alla Parola, il cui ascolto implica anche un tacere), perché magari è un uomo - ben prima che un credente - senza fragilità. Prima ancora che contemplare la Gloria, forse, stare di fronte al Crocifisso è fare memoria di quel Sacrificio che solo ci spinge a credere nella trasfigurazione di ogni lutto, di ogni inquietudine, di ogni angoscia. Grazie don Antonio, per la testimonianza e per la fatica della testimonianza. Concludo non con una predica, ma con una celebrazione, appunto, dell'Inatteso, che per definizione sfugge alle nostre povere categorie del positivo e del negativo. 

Dall'immagine tesa
vigilo l'istante
con imminenza di attesa –
e non aspetto nessuno:
nell'ombra accesa
spio il campanello
che impercettibile spande
un polline di suono –
e non aspetto nessuno:
fra quattro mura
stupefatte di spazio
più che un deserto
non aspetto nessuno:
ma deve venire;
verrà, se resisto,
a sbocciare non visto,
verrà d'improvviso,
quando meno l'avverto:
verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
il suo bisbiglio.

(Clemente Rebora, 1920)

Maria 9 Ottobre 2007

Ho scoperto il Suo sito per caso e quando ho letto questo suo testo non ci potevo credere...io l'ho sempre vista in ambito universitario (ho frequentatto l'Istituto Ecclesia Mater) e queste parole non avrei mai pensato potesse scriverle Lei. In facoltà è sempre così preciso, impeccabile, e le sue lezioni sono un vero piacere da seguire, certo non semplici, ma vale veramente la pena ascoltarle... e forse il segreto è tutto qui. Spesso le parole vengono meno, ma noi fortunatamente non comunichiamo solo così, e spesso quello che conta di più non è quello che diaciamo ma è quello che noi facciamo. Certo sull'altare Lei deve pur dire qualcosa ma il suo compito, la sua missione non si esaurisce in questo. E' la testimonianza che conta, altrimenti le parole rimangono solo parole... e  Lei testimone lo è ogni giorno  e lo è dinanzi ad una platea importante: i giovani! Con il suo impegno accademico, con la sua preparazione, con l'amore che mette in quello che fa (e mi creda si vede benissimo che le piace molto) lei da molto più di quello che crede. Tutto questo mi ha fatto pensare ad una frase di E. Galeano sulla Resilienza:«Ogni persona brilla con luce propria fra tutte le altre. Non ci sono due fuochi uguali, ci sono fuochi grandi, fuochi piccoli e fuochi di ogni colore. Ci sono persone di un fuoco sereno, che non sente neanche il vento, e persone di un fuoco pazzesco, che riempie l´ aria di scintille. Alcuni fuochi, fuochi sciocchi, né illuminano né bruciano, ma altri si infiammano con tanta forza che non si puó guardarli senza esserne colpiti, e chi si avvicina si accende». Adesso si chiederà cosa centra la resilienza, che è «la capacità di un materiale di resistere ad urti iprovvisi senza spezzarsi» con la fatica di fare il prete: se allarghiamo il concetto possiamo dire che «la resilienza corrisponde alla capacitá umana di affrontare le avversitá della vita, superarle e uscirne rinforzato o, addirittura, trasformato» e il suo compito è proprio di aiutare in questo senso le persone, con tutta la fatica che comporta essendo i sacerdoti uomini come tutti e non supereroi, anche se spesso  di questo ce ne dimentichiamo. Lei con quello che fa e nel modo in cui lo fa è uno di quei fuochi che infiammano e non sono certo io che debbo dirlo, lo sa meglio di me...l'importante è che non se ne dimentichi mai, soprattutto quando "perde le parole"!

Antonio 27 Ottobre 2008

Spero di riuscire a postare questo commento!

Lei ha citato il caso di un ragazzo a cui muore il padre, immagino sia ancora più difficile trovare le parole quando muore un bambino. Ritengo che tutto ci sia dato in prestito: vita, salute, amici, una casa... e quando vuole, Iddio si può riprendere i suoi doni. Questo riprendersi non lo vedo in contraddizione con il bene e con la vita stessa. Se accetto il fatto di essere stato creato, devo necessariamente accettare anche che non dipende da me continuare a vivere o morire, avere questo o quell'altro... Cristo però rimane un segno di speranza in mezzo alle non spiegazioni. Mi sono trovato nella condizione del ragazzo citato. Entrai in chiesa per il funerale quando morì mio padre e tutto mi sembrava privo di senso, compresa la celebrazione a cui stavo assistendo. Mi sembrava un sogno ma era tremendamente reale, il mondo mi era crollato addosso e non riuscivo a riemergere dalle macerie. Avvertivo lo sforzo e l'umana comprensione del sacerdote ma la debolezza della sua umanità non faceva che acuire il mio dolore. Avrei voluto scappare, fuggire lontano.... Ma dove? Sentivo addosso gli occhi compassionevoli di tutti e mi sentivo umiliato nel mio dolore. Qualcosa però mi svegliò mentre silenziosamente piangevo. Nel vangelo delle beatitudini, il sacerdote lesse il passo: "Beati gli afflitti perchè saranno consolati". Mi destai interiormente perché  il passo mi colpì per la sua "manifesta assurdità". Mi chiesi infatti: "Chi è costui che duemila anni fa salì su una montagna e proclamò beati gli afflitti?" Ed io mi trovavo in quella condizione... Non risposte, dunque, ma una domanda, un interrogativo che la fede impone alla ragione. L'ho capito in seguito cos'è lo stimolo alla ricerca della verità: se capissi tutto mi fermerei perchè mi sentirei appagato e nemmeno le persone che incontro sarebbero un "messaggio di Dio" per me. Perchè infatti ascoltare le ragioni di un altro se già possiedo il Tutto?

Stefano 22 Gennaio 2009

Leggendo le sue sentite parole ho rivisto scene già vissute. Ho visto mio papà quando a 63 anni, il giorno di Natale, mentre si giocava a tombola, ha cessato improvvisamente di vivere, facendo restare un ragazzo di 30 anni, sempre dedito allo studio, sgomento di fronte a questa terribile violenza. Non ero pronto. Ma chi mai è pronto? E quando si è pronti?

Eppure a distanza di 8 anni la mia visione di quegli eventi, della morte, è radicalmente cambiata. E' cambiata perchè ho iniziato a cercare, certo prima razionalmente, una spiegazione di cosa sia la morte. Se sia un qualche cosa di invincibile. Se significhi la perdita eterna (eterna ha un connotato per definito ed infinito: per sempre, senza fine) della persona. Una persona molto cara. In un altro blog lei parlava dell'inutilità, spesso, dei padri biologici. Oggi sono padre e non so cosa penserà di me mia figlia. Posso dire per certo che il mio papà non era inutile, anche se non sempre capivo (oggi di più. forse perchè vivo la sua stessa esperienza di padre) i suoi silenzi, il suo modo di fare.

Di fronte a questa sfida sono partito senza pregiudizi. Con alcuni apriori, certo, della mia formazione cattolica. Ma apriori insufficienti e soprattutto non dati per scontati. Andavano verificati, confutati o eventualmente accettati e assimilati. Non era in gioco una questione speculativa. Ma un affetto caro, un sentimento forte che richiedava una risposta forte. Da allora ho iniziato un cammino che spero non termini mai!!! Un cammino che mi ha aperto occhi e cuore. Mi è stata concessa la Grazia di intravedere cosa vi era, anche, dietro quella morte. E dietro vi era la Vita. Non è un ossimoro ma la verità. La mia verità. La nostra verità. Quella morte è stata un richiamarmi in vita. Stavo perdendomi nella nebbia e mi è stata re-indicata la strada. Video meliora proboque, deteriora sequor. Ma intanto la strada è stata segnata. in modo indelebile come indelebili sono i sentimenti di amore verso un padre e una madre, verso un figlio. Serviva una perdite incancellabile dal cuore, dai ricordi, dalla vita di tutti i giorni per orientare in modo immodificabile la direzione di marcia. Non avrei visto quella strada senza quell'evento. Sarei rimasto cieco. Sordo. Sono ancora in gran parte paralitico ma vi è un accenno di motilità. La morte di una persona cara è una  voce imperiosa che chiama, spesso, nel deserto. E' il punto di arrivo della nostra vita eppure dovrebbe essere per tutti il punto di partenza di questa nostra esistenza. E' la domanda cardine dell'uomo. E' veramente la fine di tutto? Veramente l'uomo è solo questo? Quando le cesoie di Atropo recidono il filo della nostra vita è finito tutto? E non raccontami che le opere in campo letterario, artistico, scientifico, rendono l'uomo immortale. L'immortalità è per così poche persone? E le altre perchè vivono? E quant'anche tu sia uno degli 'immortali', ma veramente la tua essenza di uomo, tutto quello che sei stato, è solo l'opera che lasci? Solo questo di te merita di essere tramandato? E quando anche i tempi, o comunque la Terra cesserà di esistere, dove andrà a finire l'immortalità? E' una immortalità che muore con il tempo? Ma allora che immortalità è? La morte è veramente possibilità di dono per chi resta e fonte di Vita per chi ci lascia. E non vergognamoci di dirlo. Ma affermiamolo senza paura perchè nostro compito è rendere ragione della speranza che è in noi. Tu me l'hai insegnato. Le tue parole non sono andate perse. Sono state nutrimento per il seme che era in me ed era cominciato a germogliare. Trasmettere speranza ad un mondo che ne ha poca e giustificarla. Morte e vita non sono due momenti che si contrappongono. La morte è il momento necessario per l'inizio di una nuova vita. La morte come momento necessario di questa vita e per l'altra vita. Morte non come fine di tutto ma come inizio del Tutto. Morte non come oblio dell'esistenza, ma come prosecuzione con maggior forza di una cammino che ha come asintoto Cristo. Se la morte è così brutta, tutti coloro che nel passato remoto e recente, nel presente, accettano la morte o il rischio di morire per Lui con invidiabile serenità di animo, sono forse tutte pazze, dobbiamo andare a recuperare il loro senno sulla Luna, o vi è qualche cosa che merita di essere approfondito? Usiamo la ragione. Essa è una delle due ali tramite le quali lo spirito umano si innalza verso la contemplazione della verità. E l'altra ala, ce lo dice nel completamento di questa bellissima frase Papa Giovanni Paolo II nel prologo all'introduzione della Fides et Ratio, è la fede. E in Cristo ci è l'unica, vera, suprema, completa spiegazione alla morte.  

Maria 8 Febbraio 2011

Caro don Antonio, vagando senza un vero perchè nel suo sito, scopro l'uomo che vive nascosto dietro il professore. Ed è una bella scoperta. Grazie per l'onestà e la trasparenza di questa sua testimonianza.

E allora anche se ormai è passato tempo dalla pubblicazione del suo post, scelgo di condividere con lei i miei pensieri.

Sono volontaria in ospedale, in un reparto nel quale la morte passa spesso, e dal quale spesso quando si esce, lo si fa disperati per le condizioni nelle quali ci si ritrova, magari con un'aspettativa di vita lunga, da vivere con limiti e difficoltà, di peso ad altri, e a volte anche con l'incertezza su come sopravvivere non potendo più lavorare.

Le malattie, gli incidenti, non fanno differenze, non selezionano in base all'età chi colpire o a chi capitare. Io sono lì. il Signore mi ha messa lì, accanto a queste persone e alle loro famiglie. Non sono un sacerdote, da me non si aspettano che sappia cosa dire, quindi non ho il peso che ha lei da sostenere.

Stasera la tentazione è stata di parlare con lei come parlo con loro. Invece riflettendoci meglio, vorrei condividere con lei quello che sento e cosa credo.

Intanto non sia così severo con sè stesso. Non dimentichi che Gesù stesso davanti al sepolcro di Lazzaro pianse, pur sapendo che l'avrebbe resuscitato. La fede non risparmia dal dolore, dalla sensazione di impotenza, ma dà un senso a quello che viviamo.

Io credo che Dio prima ancora che nascessimo ci ha pensati, ha pensato a noi e ha un progetto per ciascuno di noi, da realizzare in un tempo definito, per la costruzione del Suo Regno qui sulla terra.

Credo che c'è un tempo già definito per ciascuno (nessuno di noi può aumentare di un istante la sua vita, e non cade neanche un capello dal nostro capo senza che Dio lo voglia o lo permetta), nel quale dobbiamo imparare, fare cose per costruire, prepararci a quella che sarà la nostra vera Vita, con Lui e in Lui.

Come spendiamo il tempo che ci ha dato, le cose, le scelte che facciamo, determinano il corso della nostra vita.

Lui ci ha creati, ci ha fatti poco meno degli Angeli, ci dona il Suo Spirito, ci ha dato doni che sta a noi usare. Ci indica anche la strada, ma ci lascia liberi di decidere se seguirla oppure no. Il bene e il male che derivano da come usiamo i Suoi doni non dipendono da Lui.

Io ho una visione di corpo, tutti legati gli uni agli altri, nel bene e nel male, e le scelte di ciascuno che impattano su tutto il corpo. Il taglio ad un dito genera il mal di testa, senza connessione diretta ed evidente, ma tutto è in collegamento. E il bene fatto da uno diventa linfa per tutto il corpo. 

Il mio tumore non viene da Dio. Dio lo permette, ma non lo genera. Lui è lì che gioisce e soffre insieme a me e per me,noi, in ogni momento della nostra vita. E non permette che siamo sottoposti a prove che non possiamo superare. Dio è in grado di trasformare il male in bene, per ciascuno di noi, e trarre dal brutto che viviamo occasioni di bene, per noi e per gli altri.

Dio è Padre.

Poi c'è un momento in cui torniamo a Lui. Siamo stati qui, come in una gravidanza, nella pancia della mamma, ma c'è un momento in cui bisogna nascere. C'è il momento del parto, c'è il momento del distacco. E Lui è lì.

Dio si prende cura di ciascuno di noi, di chi va via e di chi resta. Mi torna in mente il racconto di un mio anziano amico, figlio unico e figlio di due figli unici, orfano di madre alla nascita, che a 7 anni ha perso il padre. Mi raccontava il ricordo del funerale del padre, con accanto gli unici due amici di suo papà, solo al mondo, e una voce dentro di lui che gli diceva:"Era la cosa migliore per te e per lui".

Io credo che il Signore si sia preso cura di lui, come si prende cura di ciascuno di noi.

Credo che ognuno di noi abbia un pezzo di strada da fare con altri, dai quali ricevere e ai quali dare. E che lei ed io, in modi diversi, accompagniamo le persone fin dove possiamo, fino al limite consentito. Lei un pò più avanti: lei apre la Porta. E questo è un grande privilegio. Il Signore ci ha affidato i suoi figli, perchè nel momento della debolezza, della paura, restiamo accanto a loro, vegliando su di loro, accompagnandoli, confortandoli, pregando insieme nella fiducia il Lui. Lui ci Ama, si prende cura di ciascuna delle Sue creature, senza distrarsi, mai.

Quando non sa cosa dire, chieda a Dio. Gli chieda di mandare il Suo Spirito a parlare attraverso di lei. "è quando siamo deboli che siamo forti", perchè permettiamo allo Spirito di agire in noi e attraverso di noi. Non pensi di dover dire o fare qualcosa. Chiami Dio e si lasci usare. Che il Signore la benedica e l'accompagni.

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