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The God Box di A. Sanchez

C’è tanta America in questo ultimo libro di A. Sanchez; l’america omofoba e razzista, l’america dove ognuno va nella chiesa che più gli piace, l’america dove ti possono ridurre in fin di vita perché sei gay ma dove il colpevole non potrà mai sfuggire alla pena, l’america dove si crede, si confida in Dio anche se non si capisce bene chi sia questo Dio e cosa voglia, l’america che sbandiera la libertà ma impedisce alle persone di essere libere, insomma l’america con il suo groviglio di bellezza e di contraddizioni. Quando leggi i libri di Sanchez, che ho scoperto per caso suggeriti da un amico che si occupava di letteratura adolescenziale, a te che sei straight ti girano presto le palle soprattutto dinanzi a quella retorica gay che considera gli homo l’umanità perfetta, eccentrica e capace di generosità, profondità, verità, sentimento autentico ecc; nella trilogia dei romanzi Rainbow era evidente, per fortuna meno in So hard to say; di ritorno poi in Getting it si cincontra anche in The God box dove Manuel è il campione dell’umano: preciso, tollerante, capace di sopportare, di leggere autenticamente la Bibbia, addirittura di perdonare a coloro che lo pestano fino a quasi farlo morire, insomma uno che vorresti essere tanto è nobile d’animo e vero di cuore. Ma la retorica gay questa volta mi ha dato meno fastidio del solito perché Sanchez si è confrontato con un tema delicato, essere gay e credenti; nessun accenno alla chiesa cattolica, si rimane nel mondo episcopaliano americano dove c’è tolleranza ma anche estrema ottusità. Il protagonista è Paul, un ragazzo educato e raffinato che crede in Dio, che frequenta la chiesa, partecipa al coro, fa parte del gruppo di lettura della scrittura, ha una ragazza Angie e una storia di dolore alle spalle: la mamma morta di un cancro, il padre uscito dal tunnel dell’alcool dopo il lutto per la perdita della moglie. A dire il vero Sanchez qui fallisce perché il dramma è poco accennato e uno non può vivere senza che questo ti definisca fino in fondo e la tua fede non può quasi far finta che nulla sia successo rimettendo tutto alla volontà o al disegno di Dio. Ma Paul è uno che lotta, che deve ogni volta ricacciare indietro il suo worst secret, il sapersi gay. Non ho idea di cosa significhi essere gay, mi sembra così lontano e assurdo ma soprattutto non so se esserlo è una scelta o una condizione. Paul sa di non avere scelto e nasconde tutto fino al momento in cui le circostanze lo condurranno a venir fuori e ad affrontare la realtà che per una volta tanto non sarà così difficile da sopportare. La cosa interessante è che in tutto questo non perde la sua fede, non rinuncia nemmeno all’idea vagheggiata di essere un giorno un minister anche se questa decisione non gli impedisce di lasciare la chiesa del pastore Josè (la “I AM the Way Church”). In questa sua lotta interiore la grazia lo cambia fino a farlo crescere in una coscienza che egli esprime in queste belle parole: «Dovetti lasciar stare queste vecchie idee e ammettere che non conoscevo la volontà di Dio e non potevo mai esserne sicuro. Tutto quello che potevo fare era arrendermi così che Gesù poteva entrare nel mio cuore, non alle mie condizioni ma alle sue. […] Dopo tutte le mie preghiere di cambiare, pronunciate e infilate nel mio piccolo box, Dio mi ha cambiato ma non nella maniera che io volevo. […] Sto imparando a vivere la mia vita un giorno alla volta. E sto provando a confidare in un Dio più grande di ogni box e a vedere dove mi guiderà. Talvolta divento impaziente e chiedo: “Qual è la tua volontà per me ora Signore?” Se la risposta non viene, mi ricordo del salmo 46: “Resta ancora e riconosci che io sono il Signore”» (pp. 247-248). Forse ha ragione il card. Ouellet quando dice che è tempo di porre fine alle discriminazioni, e forse non possiamo dire a priori che se uno è gay è sinful o allontanarlo dal coro della chiesa solo per la sua identità sessuale. Lasciamo a Dio il giudizio e ringraziamolo per averci fatti straight, for being just how we are.

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