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Appunti della Meditazione del Ritiro di Quaresima

(Larino, 11 marzo 2023)

 

 

La quaresima è il tempo del realismo e del lavoro, del ritorno all'essenziale (lo abbiamo vissuto il mercoledì delle ceneri) e della disintossicazione (cf l'episodio delle tentazioni di Gesù) dall'essere schiavi dell'io e delle sue voglie come disse il card. Ratzinger nella messa pro eligendo Romano Pontifice; in quella occasione il cardinale si riferiva alla dittatura dell'individualismo che è l'altra faccia, ma in definitiva coincidente, con il nichilismo; infatti quando affermi come senso o prevalenza o preferenza ciò che non è il senso (il tuo io al posto del Tu di Cristo), sei sempre nel nichilismo, ovvero nell'errore rispetto al significato vero ed ultimo della realtà, e dunque anche del tuo io, di te. Del resto dire che un senso non c'è o affermare un senso che non può essere senso non è la stessa cosa?

Il lavoro, la mortificazione (la parola bandita da tutti) è una rinuncia a sé per ritrovare sé, è una correzione di rotta necessaria perché la nostra debolezza mortale (come ci ricorda la liturgia ) ci sfinisce, cioè ci rende schiavi di un io privo della coscienza in actu exercito, privo della strada da percorrere per il suo compimento. Chi siamo, cosa vogliamo, bene o male lo abbiamo chiaro ma se non è fragile la domanda (sicuro che non è fragile?) non è altrettanto forte la risposta, la quale al massimo rischiara qualche momento della giornata (se siamo fortunati), alcune circostanze (per la verità poche) del nostro tempo, mentre tutto il resto viene risucchiato dal'individualismo, cioè dall'istintività con cui stiamo di fronte alla vita. Ossessionati dal Me, trascurati rispetto alla verità dell'Io.

E sinceramente non mi basta (uso la prima persona perché su questo posso parlare solo per me) che a 51 anni, ogni tanto nelle mie giornate accada qualcosa che mi strappa da quello che normalmente sono e mi dona uno sguardo diverso. Troppo poco! Perché la grandezza del significato se non diventa una cosa sola con la vita è come se non bastasse e quindi ultimamente è come se non ci fosse. Poiché sarebbe non bastevole rispetto all'essenziale è inevitabile che l'io, che il mio io, diventi l'idolo della mia vita, in una malsana inversione nella gerarchia della verità per cui il frammento si fa tutto dimenticandosi del tutto nel frammento (per parafrasare von Balthasar).

È incredibile come possiamo diventare schiavi del nostro io e alienati proprio mentre poniamo la domanda al centro. L'io che detta legge in maniera sottile, ma senza che riusciamo ad andare fino in fondo in questa "dittatura", perché poi siamo dei poveracci, non degli anarchici e quindi non abbiamo la forza di fare con potenza dell'io il tutto; però c'è per tutti una "zona franca", un ambito più o meno esteso, ma certamente importante per noi, in cui contiamo solo noi, decidiamo solo noi, e guai a chi si intromette o questiona la nostra "sala hobby". Ci sono cose di noi che vengono prima di tutto, prima degli affetti più cari, figuriamoci se non prima di Cristo!

E anche quando nella lucidità non soffocata dalla routine fai i conti con quell'insoddisfazione che puntualmente riemerge, non c'è problema, semplicemente la camuffi, oppure ne fai un lamento (lamento e sfogo e tutto e sistemato); ma non la prendi fino in fondo sul serio perché sai che metterebbe in questione quelle certezze di te che non sono negoziabili. Oppure ti accontenti dei momenti in cui Cristo ti richiama e ti strattona che se da un lato ti fanno avvertire presente il destino, dall'altro non scalfiscono veramente il quotidiano.

Perdonate se ripeto questa cosa che mi sta a cuore perché la vivo oggi. Non mi bastano più i momenti, ho bisogno di qualcosa di più, è necessario che qualcosa cambi, perché altrimenti a poco a poco vita e fede, cioè vita e Cristo, diventano se non estranei e paralleli di sicuro solo tangenti e non coincidenti e se l'inerenza del significato non è pervasiva rispetto alla vita è come se non ci fosse. Non mi bastano le dichiarazioni di principio, voglio vedere qualcosa di diverso e di più concreto, non una tantum ma come una permanenza, perché non mi basta sperare che questo un giorno accada, dal momento che si vive per qualcosa che c'è, che salva tutto "oggi", non ieri né domani: oggi e tutto; tutto, non solo una mezza parola che mi richiama mentre tutto il resto dell'oggi è perduto nell'anonimato dell'accadere delle cose, il che è la fine della vita.

 

Ora lo scarto che esiste tra Cristo e la vita o dipende da Cristo o dipende da me, tertium non datur. Non possiamo accusare nessun altro: o Cristo o me, il resto è ciò che ti aiuta a capire ma non può decidere per te. Perciò tutto questo esige un lavoro quotidiano su noi stessi, lo stesso che ha fatto Marta, che hanno fatto tutti i santi nella storia. Questo primo passo consiste nel fare ordine nella vita, "disintossicarsi" e ripartire da Cristo, guardare a Lui. È un cammino da riprendere e intraprendere che nessuno può fare al posto mio, ma che io non faccio da solo.

Uno potrebbe dire: ma io il cammino lo faccio, vado a messa, più o meno Giussani lo capisco, non è che poi questa compagnia mi sia davvero necessaria; è sì un aiuto ma non decisivo rispetto a qualcosa che devo fare io e che se decido di farlo posso farlo anche da me. Invece, come Marta, Maria e Lazzaro, si lavora assieme su questo avvenimento. La compagnia è il luogo dove accade l'incontro ed anche il luogo dove si condivide ciò che è accaduto e dove si verifica se veramente Cristo è l'unica cosa necessaria della vita, cioè l'unica (e ripeto: l'unica) cosa di cui non puoi fare a meno. Già il dire "l'unica cosa di cui non possiamo fare a meno" si carica di un'astrattezza e di una retorica enormi, noi che non possiamo fare a meno nemmeno delle nostre abitudini...

Nel Nuovo Testamento questa dinamica della compagnia luogo dell'incontro, della condivisione e della verifica, è evidente. Nessuno è mai solo di fronte a Cristo; gli apostoli sono mandati a due a due, Paolo unisce alcuni alla sua missione (e non perché non può fare tutto da solo), Gesù ne chiama dodici "che stessero con lui". Nessuno può pensare il rapporto con Cristo (che certamente è personale) senza quelle persone e quel luogo; e lo stare insieme non obbedisce a ragioni pratiche ma ne va dell'essenziale. Perciò di questo luogo non possiamo fare a meno. Non solo del movimento in generale - gesti, testi, sdc, momenti - ma della concretezza in cui si incarna il movimento, ovvero delle persone che hanno incontrato Cristo nella fecondità del carisma dato dallo Spirito a don Giussani, perché per alcuni accadesse il miracolo dell'incontro con Lui.

Ciò che rende necessario questo luogo e queste persone per me oggi non è un'affinità elettiva, non è il convergere su determinati interessi (altrimenti facciamo la proloco o altro) ma il fatto che tutti siamo impegnati in questa verifica, nel far diventare reale per noi il dire che Cristo è tutto per il cuore dell'uomo. Questa è la ragione ultima del nostro stare insieme e ciò che più di tutto ci rende responsabili della nostra unità davanti al mondo. Non ci siamo scelti, siamo stati scelti. La Chiesa è una cosa così; pensate che all'inizio c'erano ebrei e pagani, due realtà che non avevano nulla in comune, espressione di una diversità estrema. Dio ci ha dato questo luogo come il luogo per noi dell'incontro con Lui ed è in questo luogo e con queste persone che verifico che Cristo è tutto per il mio cuore; ovvero questo luogo (non un altro), queste persone (non altre) mi verificano, cioè mi fanno diventare vero e reale che Cristo è tutto.

Noi con la nostra diversità, secondo il metodo che troviamo all'opera già con gli Apostoli. Quando Paolo fa l'incontro con il Signore, n un modo diverso da come lo avevano fatto gli altri, lui che non aveva conosciuto il Gesù della storia, i va subito dagli apostoli perché quelle persone (gli apostoli) e quel luogo (Gerusalemme) rendono vero, autenticano l'incontro che egli ha fatto; ed anche se difenderà sempre la sua "singolarità", non farà nulla che non sia in comunione con gli apostoli, perché senza di loro non era vero il Cristo che aveva incontrato. Un luogo a cui rimane fedele nonostante la diversità umana che c'era tra lui e gli altri, basti pensare allo scontro duro tra lui e Pietro, come Paolo lo racconta nella Lettera ai Galati dove accusa Pietro di ipocrisia e lo rimprovera a viso aperto e a muso duro. Ma l'unità era ciò che veniva prima, che sussisteva nelle differenze, sapendo Paolo molto bene che quelle persone non le aveva scelte lui ma senza quelle persone - come lui stesso ci dice - "avrebbe corso invano", non avrebbe costruito nulla, pur nella certezza dell'incontro così vero e totale con il Cristo.

Solo Cristo tiene unita tanta diversità, solo in Cristo la fede diventa l'esperienza di un popolo e solo per Cristo vale la fedeltà a questo luogo, la familiarità con queste persone, la responsabilità che viviamo verso entrambi (luogo e persone). Solo se c'è questo ci può essere la missione. Cosa ci sia di Cristo nei nostri rapporti, nella nostra vita di fraternità e di movimento non lo so; so solo che se non c'è in questo ambito, ancor meno ci può essere in altro ambito della vita, dal marito/moglie ai figli, ai colleghi, agli amici. Non basta nemmeno essere amici perché ci sia spazio per Cristo, perché se non hai a cuore il luogo dove incontri Cristo, dove c'è Cristo, non potrai avere a cuore Cristo altrove.

"Il Maestro è qui e ti chiama"; è lui che chiama, è lui che è qui. Se non ci fosse un "qui" sarebbe un'astrazione, una provocazione filosofica, uno sforzo etico, ma non una chiamata, cioè una vocazione, perché solo se è presente qui dove lui ti ha posto allora anche ti chiama. Cristo Chiama Maria ma lo fa mediante Marta che diventa il tramite della chiamata dell'eterno. Cristo non è un appello che si impone alla nostra libertà ma è una chiamata a cui puoi rispondere o no, a cui puoi dire "eccomi" come fece la Madonna, come fece Samuele, oppure "su questo ti sentiremo un'altra volta" come risposero a Paolo i filosofi dell'Areopago che tanto avevano a cuore la domanda quanto non avevano educata la libertà.

Gesù si propone cioè si "pone a mio vantaggio, si pone per me" con un'imponenza che non costringe ma attrae la nostra libertà, un'attrazione che nasce da un'attrattiva (l'evidenza oggettiva di cui parlava Balthasr) (cf anche sdc Dare la vita per l'opera di un altro, p. 72) e che passo dopo passo si fa strada nella vita fino a che non ti arrendi all'evidenza di un amore infinito; questo accade in un cammino che dura tutta la vita perché l'attrattiva non è data una volta per tutte e la libertà non è la puntualità solitaria di una decisione ma un riaccadere continuo, quotidiano, di risposta alla pro-vocazione che viene da quell'appello rivoltoci da Cristo attraverso coloro che ci ha posto a fianco.

Siamo amici per essere tramiti di questo, perché abbiamo a cuore che l'altro incontri Cristo rispondendo a Lui che chiama, che lo chiama tramite me. Questo è il senso della fraternità e questo è il senso della missione che siamo chiamati a vivere verso chi è nella fraternità e verso chi è al di fuori della fraternità; ogni carisma è per questo e nasce da questo. Perciò il carisma è necessario per me e sono io che rendo presente il carisma e in un certo modo ne sono responsabile. Certamente non sono io il carisma ma come risuona oggi quel dono fatto a don Giussani grazie al quale abbiamo risposto a Cristo che ci chiamava se non per mezzo di me? La missione è una cosa così, è una responsabilità del genere perché se ognuno di noi non è per ogni uomo come Marta che ti dice "Il Maestro e qui e ti chiama" a che serviamo? Più riconosciamo e amiamo il miracolo che ci è successo più ci preoccupiamo di essere segno, sacramento per tutti di questo avvenimento, ovvero viviamo la missione.