Editoriale – 119
Lo scorso 25 ottobre ho festeggiato 25 anni dall'ordinazione sacerdotale. Inserisco il saluto che ho fatto al termine della messa
Carissimi tutti,
anche se questo giorno capita nel periodo più complesso e faticoso della mia vita tra amarezze e incertezze e qualche sconforto, posso e mi sento di ripetere questa sera a voi e con voi che tutto è grazia. La vita è grazia, la fede è grazia, il ministero sacerdotale è grazia. Ringraziamo dunque Dio con animo grato perché non si stanca mai di servirsi delle nostre sgangherate e ferite umanità per continuare a farsi avvertire presente e incarnato come presenza tangibile nel mondo.
Bisogna essere grati per il dono della fede, per una vita ricca di senso, perché ci è stata fatta la grazia di incontrare il volto e la carne del mistero che fa tutte le cose dentro una concretezza fatta di persone e di storie. In fondo la vita sacerdotale è un modo per vivere l'unica grande vocazione che proviene dal battesimo, la vocazione alla santità, cioè ad una vita riuscita, piena e pregna di significato, all'altezza di quelle domande ultime che ci definiscono in ogni fibra del nostro essere.
Certo in un tempo in cui noi preti non abbiamo la stima quasi di nessuno e spesso siamo considerati dal mondo e anche da chi conta nella chiesa un problema, se non il problema della chiesa, bersaglio continuo dove se fai bene o fai del bene non se ne accorge nessuno, se sbagli ti crocifiggono rimane la domanda: ma perché uno si dovrebbe fare prete?. Non lo so, io posso rispondere solo per me perché nella fede, come diceva il card. Newman, uno può parlare solo per sé (lo chiamava il principio dell'"egotismo"). Si dice sì a questa forma di vita non perché hai una visione o senti una voce che ti chiama come accadde a Samuele. Scegli questa strada e chiedi alla Chiesa di verificarla, cioè di attestare la bontà e l'autenticità della scelta, perché la ritieni quella che realizza di più la tua umanità, quello che ti fa essere di più te stesso. Non c'è nessuna eroicità, nessuna straordinarietà (se non lo straordinario dell'ordinario) ma solo l'intravedere che quella forma di vita ti corrisponde di più, è quella che fa più per te. Certo ciò che percepisci chiede poi la verifica della vita che ti con-ferma (ti rende fermo) oppure ti dice diversamente. E siccome è sempre implicata la vita, ecco che uno è prete, non fa il prete e porta dentro il ministero la singolarità e problematicità della sua umanità, porta le domande e le provocazioni della vita, le questioni (in latino significa proprio domanda), perché la fede è chiamata ogni giorno ad essere all'altezza della vita, a dire prima di tutto a me le sue ragioni.
Inutile nascondere che mi sento come il vaso di creta di cui parla Paolo o ancor di più come l'otre vecchio del vangelo, tanto grande è la sproporzione tra il dono e quello che posso fare per corrispondervi (rispondere con il cuore), nella consapevolezza che un otre vecchio mette a repentaglio il vino nuovo e dunque rompendosi non arreca un danno a se ma soprattutto al suo contenuto. Ma come leggiamo in san Paolo, ci dobbiamo far bastare la Sua grazia, quella basta sempre ma noi non sempre pensiamo che basti.
Per l'ordinazione scelsi questa frase sempre di Paolo: "noi non intendiamo fare da padroni della vostra fede, siamo invece i collaboratori della vostra gioia, perché nella fede voi siete già saldi" (1Cor 1,24). Il sacerdote cammina con il popolo, lo guida e ne è guidato, lo accompagna e ne è arricchito, condivide con il popolo l'essenziale della fede e la gioia del vangelo, perché più la fede diventa coestensiva alla vita più la gioia, cioè il compimento, ci riempie la vita. Anche se il Signore finora ha riservato a me una vocazione nella vocazione quella dello studio e della ricerca (forse l'unica cosa che riesco a fare un po' discretamente), un sacerdote non è tale senza l'appartenenza ad un popolo con il quale camminare. In questo senso sono quello che sono grazie a due comunità, le sole nelle quali ho vissuto anche il ministero nel passato: Montemitro e San Felice del Molise. Non potrò mai dimenticare l'accoglienza, l'umanità, la fraternità, l'amicizia di quelle due comunità di cui mi sento ancora ora parte e ringrazio ogni giorno Dio di avere incontrato quelle persone. Sono contento che alcuni siano qui tra noi stasera, non sarebbe stata fino in fondo festa senza di loro.
E poi la grazia di vivere questi anni, dopo i 23 trascorsi a Roma nella comunità di Guglionesi dove sono nato e dove ho incontrato Cristo nella forma del carisma di don Giussani che oggi mi permette di voler bene a tutti e di considerarvi tutti e ciascuno e questo luogo come la mia casa, il posto dove rinasci. E devo riconoscere che questa esperienza è stata resa possibile da don Stefano che mi ha accolto nonostante io faccia poco e il mio contributo sia limitato; considero la sua presenza come parroco un grande dono per questo popolo, una vera e propria benedizione del Signore. Lo ringrazio di cuore per tutto ciò che mi ha dato e insegnato in questi anni.
Si è in forza delle persone che uno incontra nella vita. Non è che uno si salva da solo, il fatto – più radicalmente – è che uno non può essere sé da solo. E il pensiero va a questo esercito di persone senza le quali non potrei dire io. Molti si sono congedati da questo mondo, penso ai miei genitori, a mia madre in particolare la cui perdita mi pesa come una voragine dolorosa, penso a chi ha smesso troppo presto di farmi compagnia andandosene quando ero ancora un ragazzo; è un elenco lungo che serbo nel cuore ricordando volti e storie e pregando incessantemente per loro.
Ma grazie a Dio posso dire che alcuni (non pochi) mi accompagnano ancora. Una gratitudine speciale ininterrotta e ininterrompibile verso don Gabriele, a cui devo quasi tutto, quel paragone costante, quell'autorità (nel senso di augeo, di chi ti fa crescere) di cui come persona e come prete beneficio. Una parola di gratitudine al mio vescovo. Lo ringrazio per tante ragioni che lui può intuire, soprattutto per quello che mi ha testimoniato in termini di affezione e di stima immeritata in questi anni e lui sa perché. Grazie ai confratelli nel sacerdozio, al presbiterio a cui appartengo con cui tanto condivido e ho condiviso.
Vi ringrazio tutti e ognuno, voi presenti e quanti si sono fatti sentire e hanno o stanno pregando per me in questo giorno, quanti avrebbero voluto esserci ma le circostanze non lo hanno permesso.
Grazie ai sindaci di Guglionesi e San Felice del Molise per la loro presenza (non lo considero un gesto scontato), grazie a questo popolo di Guglionesi la cui fede è vera e profonda e porta sempre frutto, grazie a quanti si sono dati da fare in questi giorni per farci vivere bene i momenti (i cori e coloro che si sono occupati di preparare tutto), un grazie unico al parroco don Stefano, questo dono grande e questa benedizione che Guglionesi ha ricevuto da Dio. Se non ci fosse stato lui non sarei stato capace di organizzare nulla, ma don Stefano non è tanto solo uno che organizza, è una persona che ha cuore questa comunità e la cura in ogni modo, essendo sempre presente, con la sapienza che lo caratterizza e con la passione che rende ogni cosa più bella.
Grazie infine ai miei amici, soprattuto agli amici di merende; l'amicizia è la forma con cui Cristo si fa presente nella nostra vita, lui che ci ha chiamati amici. Se non ci fossero loro è come se non ci fosse l'aria, come se le cose e la vita non avessero sapore e spessore perché senza l'amicizia non c'è Cristo.
Dio vi benedica e possa farci camminare insieme sui sentieri che traccia per noi, ci renda santi, cioè felici, la sola cosa che conta nella vita. Grazie
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