Editoriale – 115
Appunti per il Ritiro di Quaresima
(26 marzo 2022)
1.La speranza cristiana
L'attesa e la domanda ci definiscono; noi siamo attesa e ogni volta che siamo aiutati a vincere la distrazione dell'io a cui la realtà sempre ci inclina, non possiamo non riconoscere che nella vita in fondo ciò che ci sostiene, ciò che ci fa vivere, è l'attesa di un compimento, di qualcosa che riempia di significato le circostanze dell'esistenza, poiché non riusciamo ad accettare che la vita si riduca a quello che in essa accade, come se non avessimo da chiedere o da attenderci nulla di più e come se la realtà non fosse foriera di nulla di più che di se stessa. Siamo l'autocoscienza del cosmo e vogliamo capire il senso delle cose o meglio ci interessa dare una risposta alle domande che ci urgono e che avvertiamo inestirpabili, come quel dato ontologico che sorge nel darsi stesso dell'essere umano e rappresenta un tratto caratteristico e distintivo che ci accompagna, più o meno esplicitamente e coscientemente, in ogni passo della nostra vita.
Ma basta la consapevolezza di essere domanda per dire che si dà anche una risposta, che l'intuizione del destino insita nel darsi stesso della domanda possa essere reale, cioè qualcosa di esistente concretamente? La fede cristiana è la risposta in tal senso che investe la realtà e permette di affermarne il senso ultimo che vince il nichilismo, la tentazione del nulla, il pensare, che sempre riemerge, che le cose non hanno senso e che il loro destino sia quel nulla dal quale provengono a e cui tendono: "in nihil ab nihilo quam cito recidimus" (nel nulla dal nulla quanto presto ricadiamo) .
La speranza cristiana è allora la certezza dell'esito finale, del futuro, per cui tutta la vita è vissuta come amore a un futuro certo; una certezza che si appoggia sulla certezza di un presente. L'aver ricevuto una speranza è la redenzione, è il senso del cristianesimo come ci ricorda papa Benedetto all'inizio della Spe salvi: «La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino» (n. 1). Interrogandosi sul senso della speranza, papa Benedetto ripercorre il fondamento biblico dove la parola speranza è una parola centrale, al punto che "fede" e "speranza" sembrano parole interscambiabili. Per i primi cristiani il senso dell'incontro con Cristo era proprio l'aver ricevuto una speranza affidabile che formava uno spartiacque, tanto da distinguerli da prima dell'incontro con Cristo, quando erano «senza speranza e senza Dio nel mondo» (Ef 2,12). E san Paolo ribadisce ai cristiani di Tessalonica, in quello che è il testo più antico del NT, che loro quanto al futuro non devono affliggersi «come gli altri che non hanno speranza» (1Ts 4,13). I cristiani infatti "hanno un futuro", sanno che la loro vita non finisce nel vuoto. Ora, commenta il papa, «solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente. […] Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova» (Spe salvi 2). Questa speranza è l'incontro con Cristo; egli «ci dice chi in realtà è l'uomo e che cosa egli deve fare per essere veramente uomo. Egli ci indica la via e questa via è la verità. Egli stesso è tanto l'una quanto l'altra, e perciò è anche la vita della quale siamo tutti alla ricerca. Egli indica anche la via oltre la morte» (n. 6).
2. La certezza morale riguardo a Cristo
La grande questione diventa allora il raggiungimento della certezza nel presente; in altre parole l'essere certi di Cristo. Solo questo ci sottrae al dubbio per il quale, nonostante tutto in fondo si tratta solo di una gigantesca illusione e che il nulla è il senso di ogni cosa. Si diventa certi di Cristo perché l'avvenimento di Cristo si rivela essere pienamente, definitivamente, totalmente corrispondente alle esigenze del cuore. L'esperienza della corrispondenza a ciò che più di tutto mi costituisce e definisce è il riconoscimento della verità e l'origine della certezza circa Colui che abbiamo incontrato. Solo una presenza può essere così capace di corrispondere, non un sistema, non un'ideologia, non una visione del mondo. Questa certezza è di ordine morale non dimostrativo e dunque: ha a che fare con la vita; non possiede un'evidenza invincibile come una dimostrazione scientifica; richiede una verifica permanente ovvero il suo guadagno non è mai una volta per tutte ma qualcosa da riaffermare costantemente.
Chi meglio di tutti secondo me ha sviluppato e ci ha parlato del metodo per raggiungere questa certezza morale è stato il cardinale Newman nella sua opera più importante (ed anche più complessa) che è la Grammatica dell'assenso. Newman afferma che nel concreto l'evidenza sillogistica della scienza non costituisce il metodo che ci rende certi. Occorre invece un metodo diverso che consiste nell'accumulo di probabilità. Solo questo metodo rende ragione di quel multiforme e complicato processo del raziocinio necessario per raggiungere l'uomo concreto: l'accumulo di argomenti probabili indipendenti, sufficienti quando uniti ad una ragionevole conclusione. La certezza raggiunta sul piano concreto deriva da probabilità che sono e restano tali, probabilità che spesso, grazie al buon senso o alla fede nella testimonianza, se non possono essere dimostrate, non per questo mancano di ragioni al punto da dubitare della loro verità, perché non c'è nulla di sbagliato nel fidarsi dell'autenticità di una testimonianza, come se il contenuto fosse stato dimostrato. Le prove, quando non sono sufficienti per una dimostrazione scientifica ma lo sono per un assenso e una certezza, determinano una "certezza morale": pur non essendo in presenza di una dimostrazione, le probabilità sufficienti si avvicinano così tanto alla prova da garantire un assenso fermo quanto quello che si dà al cospetto di una dimostrazione. Poiché la nostra modalità di ragionare tende ad andare non da proposizioni a proposizioni ma da cose a cose, il ragionare non scientifico descrive adeguatamente la complessità della razionalità, che «possiede una fonte più alta della norma logica» (1405), da cui deriva l'inferenza naturale, che rappresenta il modo in cui ragioniamo di solito trattando le cose direttamente nel concreto. Questo modo, presente sia negli uomini di genio che in quelli non istruiti e che, similmente alla poesia, è una "manifestazione spontanea del pensiero" che ci ritroviamo dalla nascita, proviene dalla natura e appartiene a tutti, a geni come Newton e Napoleone ma anche al medico che sa diagnosticare le malattie o al contadino, nel cui caso viene così descritta: «un contadino che sa prevedere il tempo può tuttavia essere semplicemente incapace di dare ragioni intelligibili del perché egli pensi che domani farà bello; e se tenta di farlo, può dare ragioni a vuoto; ma ciò non indebolirà la sua fiducia nella sua predizione. La sua mente non procede per gradi, ma sente tutta in una volta e insieme la forza dei diversi fenomeni combinati, benché egli non ne sia consapevole». Ora, conclude Newman, nella fede abbiamo una "accumulazione di diverse probabilità", sulla base delle quali è possibile costruire una prova legittima sufficiente per la certezza; la certezza è sempre sinonimo di conoscenza (la probabilità implica "non scientificità" ma per nulla affatto "non certezza"), ma alla certezza si giunge non solo per dimostrazione e sillogismo ma anche per accumulo di probabilità, le quali sono decisive quando si tratta del concreto.
3. Il metodo e il cammino: l'accadere di un'affezione
Questo in fondo è stato il metodo seguito dagli apostoli verso Cristo: nell'esperienza della condivisione con lui essi, prima intuiscono quindi riconoscono un senso ragionevole a partire dalla "lettura dei segni", cioè dal giudicare quello che vedevano, le parole che Gesù diceva e i gesti che compiva; un cammino progressivo di conoscenza, fatto di ripetizioni, di segni che si accumulavano e grazie ai quali, come registrano redazionalmente gli evangelisti, "i discepoli credettero in lui". È interessante che nei vangeli Gesù non parla una volta per tutte o agisce una volta sola ma compie tanti gesti, ripete tanti miracoli: tre moltiplicazioni dei pani, tanti esempi di indemoniati guariti, diverse rianimazioni di cadaveri… Forse che far risuscitare una persona non era sufficiente per manifestare la sua potenza? Piuttosto il ripetersi dei gesti era necessario perché gli apostoli giungessero alla certezza circa la sua persona. E sappiamo come questo configuri un cammino, descriva una traiettoria non puntuale ma fatta di passi e di riconoscimenti, di evidenze e di incertezze. La prima attestazione del riconoscimento la troviamo nella confessione di Pietro a Cesarea di Filippo; ma non è che dopo è tutto chiaro; ci sarà invece bisogno di ulteriori riconoscimenti, di conferme, al punto che dallo stupore e dalla domanda gli apostoli progressivamente saranno sempre più presi da Cristo, ne faranno sempre più il centro affettivo della loro vita al punto da dire "andiamo a morire anche noi con lui" .
Questo cammino è lo stesso per noi. Abbiamo davanti la vita della compagnia di Cristo, del suo corpo, ed ogni momento, ogni gesto, tutto diventa occasione per riconoscerlo, per farlo diventare il centro affettivo della nostra vita, colui senza il quale, per riprendere le parole del poeta, «pregio non ha, non ha ragion la vita» (Leopardi, Il pensiero dominante). È chiaro che questo è un lavoro, ovvero la continua verifica della pertinenza della fede alle esigenze della vita, un lavoro senza il quale non si cresce e senza il quale la fede rimane o astratta o non con-fusa con la vita.
Ed è proprio la mancanza di affezione che lascia l'ombra sulla verità di quello che abbiamo incontrato, che toglie l'ultima ragionevolezza alla fede; non perché mancano segni o perché c'è una debolezza di evidenza, ma perché il cuore è altrove. Senza l'affezione non c'è conoscenza, la realtà non ti dice nulla, qualunque cosa in essa accada; e del resto nei vangeli, se ci facciamo caso, tutte le volte in cui Gesù è stato provocato senza che quella domanda scaturisse dalla vita, fosse cioè "affettivamente connotata", le sue parole non hanno smosso nessuno, non hanno cambiato niente, anche se riconosciute nella loro verità. Penso all'episodio del giovane ricco il quale conosceva bene la legge e avvertiva che essa non bastava, ma la sua era una domanda che non nasceva dal paragone del cuore con la vita, tant'è che alla fine quando Gesù gli dice cosa fare, il giovane ricco (cf Mt 19,16-30 e paralleli) non reagisce negando la verità di quello che Gesù gli chiede ma se ne va triste, con l'incertezza che si stende sulla verità quando la domanda non nasce dall'affezione ad essa.
Quando invece c'è l'affezione si arriva al riconoscimento certo della sua presenza che diventa abbandono ad una sovrabbondanza di cui non puoi fare a meno, qualunque cosa accada nella vita. È questo il senso del cap. 8 della Lettera ai Romani dove tutto si riassume in quella domanda retorica: "chi ci separerà dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?" La risposta di Paolo è netta: siamo vincitori malgrado tutto e questo non perché siamo più bravi, più capaci, più scaltri, più devoti, ma «grazie a colui che ci ha amati». E san Paolo conclude: «Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,35-39) .
4. Cristo presente, origine della speranza
È questa certezza di Cristo presente l'origine della speranza che ci apre al futuro non con l'ottimismo dell'utopia, che sacrifica il presente al futuro, ma con la certezza di una presenza che ti fa guardare al futuro con una positività inestirpabile grazie a quella irriducibile positività di cui già facciamo esperienza . Perciò il problema, la questione è sempre il presente e nel presente la fede e la speranza (che nel NT, come abbiamo detto, sono sinonimi) non sono guadagnate una volta per tutte, non si mantengono automaticamente ma vanno riconosciute e riaffermate, perché sfidate direi quasi quotidianamente. La realtà ci sfida, le circostanze della vita mettono a dura prova la speranza/fede. Come scrive Carron: «a nessuno è risparmiata la realtà, con tutto quello che essa comporta. Non è risparmiata a chi non ha fede, così come non è risparmiata a chi la fede ce l'ha» (p. 130).
Del resto chi per primo ha fatto esperienza di questa cosa è stato il popolo di Israele il quale perché aveva speranza non per questo è stato esente dalle sfide, anzi è stato sul punto di crollare, soprattutto con l'esperienza dell'esilio che rappresentò la smentita della promessa dal momento che Israele aveva perso la terra, il re e il tempio. Tutto è fragile nella vita, anche la speranza e con essa la fede. Le attestazioni della verità di Colui che abbiamo incontrato sembrano non essere sufficienti e l'evidenza del mistero cede il passo alle obiezioni delle circostanze che da occasioni diventano ostacoli, proprio come il popolo d'Israele per il quale la grande grazia (la liberazione dalla schiavitù e il dono della terra) passa in secondo piano sopraffatta dalle necessità contingenti: manca il cibo, manca la carne, manca l'acqua. Una fragilità enorme che anche san Paolo indirettamente riconosce quando, ormai prossimo alla fine della sua vita e consapevole del destino che lo attende a Roma, esclama: «sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2Tm 4,6-7). L'unica cosa che Paolo ricorda non sono le comunità che ha fondato, le battaglie che ha sostenuto, ma che alla fine di tutto la speranza non è stata travolta dalla vita.
5. La "differenza" della speranza
Ma allora non c'è alcuna differenza tra il vivere avendo la fede e la speranza e il vivere non avendole. In realtà, come scrive Carron, «la differenza c'è, eccome, ma non consiste nella qualità o quantità delle sfide, bensì nel modo diverso di affrontarle, secondo quella novità portata da un Dio che è entrato nella storia e ha fatto della discendenza di Abramo il suo popolo, un popolo che, di fronte alle urgenze e alle avversità, avesse qualcuno a cui rivolgersi per essere sostenuto nella speranza» (131). Solo una presenza più potente di ogni fragilità, una presenza che non viene mai meno, può fondare la speranza, come una roccia, come un'ancora, come un riparo, non importa quanto grande sia la forza del vento o la potenza delle acque ecc. Questa presenza è Cristo, è lui la roccia per chi lo ha incontrato, per quella pattuglia incerta di uomini che non capiscono ma non se ne vanno, non se ne possono andare ("Signore da chi andremo…", Gv 6,68) , che si sentono persi senza di lui ma per i quali la certezza della sua presenza ("ecco io sono con voi tutti i giorni…", Mt 28,20) rende la speranza più forte di tutto. Abbiamo bisogno di questa presenza, abbiamo bisogno del luogo della sua presenza, nell'immanenza al quale si snoda il cammino che accompagna tutta la vita.
Ora come riconoscere questo luogo, come facciamo a poter dire con una certezza morale che ci possiamo fidare di questo luogo? Che cosa rende ragionevole seguire un altro, appartenere a questa storia che è l'ultimo rivolo di una storia iniziata con l'alleanza con Abramo?
Don Giussani indica tre criteri che ci offrono la ragione adeguata per dare credito ad una persona al punto di mettere in gioco la tua vita e di seguirla.
In primo luogo è ragionevole seguire un altro quando mi comunica e mi rivela una concezione della vita e del suo destino che poggia tutta quanto sulle esigenze originali del cuore, che cono comuni a tutti gli uomini. In secondo luogo è ragionevole se ti aiuta a superare ciò che è contrario a queste esigenze e dunque ti sostiene nel rapporto con il reale, ti introduce alla realtà quale che essa sia (in tal senso è un luogo educativo). Infine è ragionevole seguire una persona se il solo movente di ciò che egli ti dice e ti propone, è l'affezione, l'attaccamento al tuo destino e dunque la gratuità.
O la nostra compagnia è una cosa del genere o altrimenti si svuota e come ogni cosa che ha perso lo scopo per cui è sorta, prima o poi non serve più, non sai che fartene. La compagnia è il luogo del cammino al destino e della verifica, cioè di una domanda costantemente educata ad imparare dal reale e a riconoscere nel reale che la speranza vince il nulla, che il nichilismo non è il senso ultimo di tutto.
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