Editoriale – 106
Appunti per il Ritiro di Avvento della Fraternità
(13 dicembre 2020)
Già nel 1885 il filosofo F. Nietzsche definiva il nichilismo "il più inquietante fra tutti gli ospiti". Nella sua analisi lucida e drammatica della condizione umana, egli prendeva atto di questa presenza, la più inquietante, con cui dobbiamo fare i conti nella vita. La nostra contemporaneità, le nostre vite appaiono segnate da questa tentazione ricorrente che è sempre presente in noi, ma che in alcuni momenti della storia è come se fosse più evidente al punto da condizionarci, più o meno consapevolmente, la vita. Non è una questione di idee ma una situazione esistenziale.
Ora il nichilismo che abita la nostra vita prende due forme strettamente collegate fra loro. Da un lato l'idea, o meglio il sospetto, che la realtà sia nulla, non abbia consistenza, che vi sia solo l'effimero e che dunque tutto è illusione e nulla . Dall'altro lato la conseguenza di questo sospetto sulla nostra vita: se tutto è nulla ed effimero la vita non ha senso, non ha alcun valore, e non serve a niente cercare fini o darsi da fare per qualcosa. Poiché noi siamo costitutivamente definiti dalla domanda e dal bisogno di un senso, il sospetto che nulla abbia senso o che il nulla sia il senso di tutto (che è lo stesso), distrugge la tua umanità generando paura, disaffezione, tristezza perché nulla vale veramente la pena.
Il nichilismo conduce a questa percezione e anche paura dell'inutilità: tutto è in-utile, la vita non ha alcuna utilità, non serve a nulla e quindi non ha senso. Siccome però non ce la facciamo a vivere con la coscienza di questo dato che ci devasterebbe cerchiamo la distrazione. In fondo perché abbiamo bisogno di distrazione? Perché la realtà non ha attrattiva, e non ha attrattiva perché non ha un senso: la sua contingenza non dice nulla oltre sé. E allora abbiamo bisogno della distrazione, viviamo in una giostra di emozioni, tutto è emozione e l'emozione rende bella l'esperienza (se un'esperienza mi desta emozioni allora è bella, diversamente non lo è, l'emozione come criterio di tutto).
La pandemia ci ha costretto a fermarci, ci ha costretto a riflettere. Chi poteva si è girato cinicamente dall'altra parte lamentandosi per quell'attacco all'abitudinarietà e alla routine quotidiana che è l'unica cosa che conta e che resta di quello che siamo (guai a chi ci tocca l'apericena, l'happy hour, la movida!), sentendosi non toccato da quello che accadeva attorno, confidando nel mantra stupido dell'"andrà tutto bene".
Ma chi ha imparato, chi è stato educato a giudicare le circostanze, a chiedersi il senso del reale, ha fatto i conti con quell'ospite inquietante, con quella minaccia permanente che accompagna quello che facciamo e, più radicalmente, quello che siamo: le cose non hanno consistenza, non valgono la pena, sono vuote e mi lasciano vuoto. Se tutto diventa insensato, se nulla vale la pena, l'io cade nel torpore, si blocca, non si coinvolge più in quello che accade: perché farlo se non ha senso? Perché perdermi e perdere tempo in una realtà che non è e non può essere all'altezza di quello che desidero e sono? Prevalgono l'apatia, il torpore, la rassegnazione, l'abituarsi alla realtà collocandoci negli incastri angusti delle cose da fare che ci fanno sentire indaffarati, impegnati, ma mai davvero realizzati – cioè mai in grado di mettere in gioco il nostro io, quello che sei, piuttosto che quello che sai fare. Non c'è niente che ti prende per davvero, come diceva lo scrittore russo Vasìlij Ròzanov: "Ho sorvolato ogni argomento, senza addentrarmici mai. Un continuo sorvolo, ecco la mia vita. Con i suoi motivi vissuti "come in sogno". Nell'altro mondo sarò privo di argomenti. E quando Dio mi chiederà: – Ma tu, cosa hai fatto? – Nulla – sarà la mia risposta"; le cose non hanno più valore, non valgono: la realtà è indifferente a te, alle tue domande, c'è una estraneità della terra che ci ospita, che ci lascia solo insignificanza; scrive ancora Nietzsche: «ed ecco vidi venir sugli uomini una grande mestizia. I migliori si stancarono delle loro opere. Una dottrina si diffuse e insieme una credenza: "tutto è vuoto, tutto è indifferente, tutto fu!". E da ogni altura faceva eco: "tutto è vuoto, tutto è indifferente, tutto fu!"» . "Dannato alla tristezza quotidiana" (Pavese): non è la tristezza struggente che ti spinge a protestare, finanche a lottare contro il destino come l'eroe tragico greco, come Giobbe che non si rassegna, vuole capire il perché più che accettare il dato di fatto; piuttosto si tratta di una vita normale, vissuta con questo tarlo che devi nascondere perché non ti ci puoi abituare, e quando la realtà ti strattona esso viene di nuovo, inevitabilmente fuori. La pandemia ha smosso le acque e la tempesta ha restituito i suoi cadaveri.
Il nichilismo irrompe nella ferialità della vita, come una disperata rassegnazione, una stanchezza del desiderio (che è forse la cosa più pericolosa che ci sia) e nello stesso tempo quel senso di impotenza che ti fa mollare perché la realtà sembra non poter essere modificata, e protestare non serve a nulla. E allora la soluzione intravista sarebbe quella di non farci caso, di rimuovere il malessere, di vivere come se non ci fosse, e tentiamo questa strada riempiendoci di cose da fare, cedendo ad una educata frivolezza, ridendoci sopra, insomma tutte le forme della distrazione … ma il dolore al fondo di tutto resta perché a noi non basta "vivere e basta", vogliamo vivere per uno scopo, riconoscendo un senso, cercando una risposta a quella domanda e bisogno che ci definiscono come cuore.
Il fatto è che quel disagio, quella tristezza lo puoi nascondere o mettere a tacere, ma non puoi mai estirparlo e questo ti dice che è qualcosa che resiste, che non si arrende all'alta marea, allo tsunami del nichilismo. C'è qualcosa di più grande ed è il nostro cuore con la sua inquietudine. Non ti puoi scrollare di dosso quella struttura di desiderio che è il cuore con le sue esigenze originali, di compimento, di amare ed essere amati, di conoscere il significato esauriente della realtà. Il nostro io è irriducibile, non si arrende mai. Più il nulla dilaga, più l'io può venire fuori. Privati, orfani oggi dell'ottimismo della tradizione giudaico-cristiana (il passato come male, il presente come redenzione e il futuro come salvezza) e della sua versione secolarizzata della scienza/rivoluzione (redenzione) e dell'utopia (salvezza) , che sosteneva il presente e fondava l'impegno, non siamo dinanzi alla fine di tutto ma alla possibilità di un nuovo inizio, di un risvegliarsi dal torpore: il ritorno della domanda, cioè del desiderio. La realtà nella sfida del virus, ha ridestato la domanda. L'urto provocato dalla circostanza ha rimesso in modo la nostra ragione lasciando riaffiorare l'urgenza del bisogno di significato che ci costituisce e ci definisce come desiderio: "il risveglio dell'umano".
Il desiderio è il punto di partenza in ogni cosa e alla fine ci devi fare i conti: puoi deciderlo di ignorarlo, e allora ti riempi di cose da fare così da non avere tempo per pensare, e anche questa è una forma di rassegnazione, oppure puoi decidere di farci i conti cioè di ergerlo – il desiderio – a criterio della vita. Il desiderio è il grido del cuore, quello che ultimamente mi sta a cuore e questo desiderio è l'attesa di un compimento, di una pienezza ("tutta la vita chiede l'eternità"), di un infinito che è come l'orizzonte, l'asintoto rispetto a quello che puoi ottenere "riempiendo" la domanda.
Certo c'è una premessa da riconoscere: se c'è il grido c'è la risposta, se c'è la domanda c'è anche la risposta. Quel significato ultimo che muove come domanda la ragione nel rapporto con il reale – cioè che trasforma i fatti che ci accadono in esperienze – c'è, è oltre quello che si vede ma c'è. Perciò il nichilismo mira a cancellare la possibilità della risposta, minando così il valore dello stare dietro alla domanda. Quando Nietzsche proclama la morte di Dio, quello che lui intende non è anzitutto una posizione atea o anticristiana. La morte di Dio è semplicemente la negazione di un senso oltre quello che si vede, cioè di una risposta alla nostra domanda, mediante il confinamento del significato ai fatti stessi, di modo che essi non sono il segno di niente. Per Nietzsche era chiaro che la negazione della risposta equivaleva a screditare la domanda e quando hai rimosso la domanda rimane solo l'immersione nel dettaglio presente (senza curarsi del prima e del dopo) e la fuga dalla realtà nel mondo dei sogni.
E la profezia di Nietzsche non si è forse realizzata? Gli uomini non si sono ormai abituati a vivere senza mai interrogarsi sul senso di quello che vivono? Si riempiono le giornate di cose da fare, si lamentano ma sono contenti perché non hanno tempo per niente, perché non sanno dove devono sbattere prima la testa, ma non vivono una sola circostanza chiedendosi che rapporto essa abbia con la domanda del cuore. In fondo il mondo li ha abituati a non farlo perché la realtà esaurisce il suo significato nel suo mero accadere e allora bisogna consumare le circostanze, non fermarsi mai a riflettere. Se non c'è la risposta non ha senso nemmeno la domanda.
Ora il punto in questione è: è più ragionevole ammettere che una risposta debba esserci se si dà una domanda così coestensiva al nostro essere, oppure negare che ci sia una risposta nonostante l'onnincludenza della domanda e concludere quindi all'insignificanza di tutto? In verità noi tante volte scambiamo la sproporzione fra il desiderio e la realtà – cioè tra quello che il cuore desidera e quello che la realtà ci mette davanti – come impossibilità che una risposta ci sia e allo stesso tempo sappiamo che la domanda non riusciamo ad estirparla, possiamo anestetizzarla, nasconderla, ridurla, metterla a tacere ma mai cancellarla e basta un attimo perché ritorni prepotente a definirci. E allora o siamo le creature più sbagliate su questo mondo (in fondo questa è anche la conclusione di Leopardi) oppure quel desiderio ha un compimento, quella domanda ha una risposta, quel bisogno può essere evaso da qualcosa che non siamo noi a darci ma che possiamo solo sperare e desiderare come un battesimo di desiderio; una risposta che siamo costretti ad ammettere "al di là dell'orizzonte della nostra vita": non coincide con niente di ciò che possiamo afferrare, non so che cos'è ma so che c'è (Brillio, 25), un po' come era Dio nell'Antico Testamento: gli uomini sapevano che c'era ma non sapevano chi era, cosa fosse e solo quando quel Dio decide di farsi conoscere, la certezza del suo esserci si riempie di contenuto cioè diventa realtà presente, poiché non puoi dire fino in fondo che una cosa sia presente finché sai solo che c'è e non sai cos'è. Tutto l'Antico Testamento è in questo grido rivolto a Dio perché squarci i cieli (cf Isaia), faccia irruzione nella storia così da poter essere conosciuto.
Si badi bene, non è un desiderio che precede il manifestarsi di Dio ma è una domanda permanente perché in fondo noi possiamo attendere solo ciò che è già in mezzo a noi. Per quanto paradossale che sia per noi il senso dell'Avvento, cioè dell'attesa, non è il desiderio di qualcuno che non sappiamo chi sia e se ci sia, ma è la ricerca del volto di qualcuno che abbiamo già incontrato nella nostra vita e che vogliamo che diventi sempre più una presenza, cioè che accada, e proprio perché è accaduto e riaccade, desideriamo che non cessi mai di riaccadere, di av-venire, dove in realtà, lo sappiamo bene, più che chiedere a Dio che si renda presente, chiediamo a Dio che ci renda capaci di riconoscerlo presente.
E per riconoscerlo presente non hai bisogno dell'eclatanza delle circostanze ma di prendere sul serio il grido/domanda/desiderio perché solo se tu entri in rapporto con il reale partendo dalla domanda riesci a riconoscere la risposta che già c'è, perché tutto è eco della grande presenza, tutto è attestazione del Mistero. Perciò se non c'è la domanda non c'è l'esperienza e la realtà non ci comunica nulla oppure non ci dice nulla di diverso rispetto a quello che crediamo già di sapere e se le circostanze dovessero stridere con evidenza rispetto al contenuto del desiderio andiamo in crisi e crediamo che in fondo la risposta non c'è e la domanda è un'illusione. La difficoltà della vita non è ricompresa dentro la realtà ma diventa obiezione che spinge a rinnegare la bontà e la verità della domanda e soprattutto di tutte le volte in cui ne abbiamo colto la corrispondenza; in altre parole noi abbiamo questo dannato vizio di mandare a puttane tutto ciò che abbiamo riconosciuto e acquisito nella vita per una circostanza, o perché un rapporto con una persona improvvisamente non corrisponde più a quello che ci attendiamo che debba essere.
Cosa ci salva dal nichilismo, come si vince il nichilismo? Certamente non i discorsi, le prediche religiose o laiche, astratte e moralistiche, le chiacchiere consolatorie, come le chiama Dostoevskij; essi non sono capaci di conquistare la vita. Ancor meno lo sono le regole, l'etica, i valori che dovrebbero orientare il desiderio o quanto meno contenerlo, ridurlo entro limiti accettabili. Ma il cor inquietum non è appagato dalle regole, non è l'etica che salverà il desiderio nel momento in cui pretende di ridurre il desiderio. Infine la terza strategia immunizzante: abbassare l'asticella del desiderio, darsi una ridimensionata, accontentarsi del poco senza stare dietro alla misura sconfinata del desiderio che non solo è incolmabile ma ci fa stare male. Per risolvere il problema che il desiderio diagnostica, rinunciamo allo strumento che ci permette di percepire il problema e così crediamo che la soluzione del problema sia il problema.
Ma per fortuna la nostra umanità non si lascia ingannare, e nonostante le debolezze che la segnano non ha smarrito la capacità di un giudizio sulla realtà. Quel grido rimane inestirpabile, ci definisce e ci logora, come una fame permanente, come una ricerca che non dà tregua. Ma possiamo venirne a capo non rinunciando a quel grido che definisce la nostra umanità ma facendone il criterio di giudizio, il parametro, la misura con cui giudichiamo la realtà e dunque facciamo esperienza. Sarà sempre il cuore a dire cosa cor-risponde ed è nella corrispondenza che si dà la verità. Qualunque ideologia, visione del mondo, strategia che spieghi la realtà non viene a capo del paradosso e della sproporzione; solo una presenza all'altezza della nostra domanda di totalità risolve il paradosso. Non è qualcosa che puoi produrre tu, che ti puoi costruire tu, ma è qualcuno che puoi solo riconoscere nel suo avvento, nel suo venire a te nella realtà.
Come carnalmente ci poniamo nella realtà così solo carnalmente può dirsi e darsi la risposta. Solo una carne, una presenza carnale è in grado di strapparci dal nulla; certo non qualsiasi carne (altrimenti ne faremmo un idolo) ma una presenza che porta con sé qualcosa che corrisponde a tutta la nostra attesa e ci fa sperimentare una corrispondenza inimmaginabile (cf sdc). La carne che ti salva è quella che ti genera una inimmaginabile, mai provata corrispondenza al cuore. Alla fine è la corrispondenza il criterio che ci permette di riconoscere la carne che ci salva dal nulla, ma la corrispondenza implica il fare i conti con quel grido, quella domanda che ci definisce. Se la fede non è il riconoscimento che nasce dal cuore (come paragone delle esigenze elementari costitutive con l'accadere di quella presenza) essa non potrà ami reggere all'urto della vita e quando la durezza dell'esistenza busserà alla porta della nostra umanità, ci divorerà, se il Signore non lo avremo riconosciuto come quella carne che perchè mi corrisponde definitivamente ha vinto il mondo e il male nel mondo.
Solo quella carne che è in grado di colmare l'abisso della vita può strapparci dal nulla. E lo sguardo di tenerezza di cui abbiamo bisogno è proprio nel farsi carico del nostro desiderio, del grido del nostro cuore. Solo una carne ci salva e non a caso il logos, cioè il senso delle cose non si è fatto dottrina (come volevano gli gnostici) ma si è fatto carne, quella carne che scandalizzava i Giudei (può mai un Dio abbandonare la propria infinità beata) ed era giudicata stolta dai Greci (per i quali la carne non ha nessun valore è solo un impedimento della verità dell'umano); solo una carne ci salva e solo in una carne noi incontriamo "il Verbo fatto carne". Ci sono due aspetti in questa affermazione. Prima di tutto ci salva "il Verbo fatto carne", ci salva lo sguardo introdotto nella storia da un uomo, Gesù di Nazareth, che era la carne di Dio, il cui sguardo su di noi, la cui passione per noi ci ha sconvolto e rivoluzionato la vita proprio come alla peccatrice o ai tanti personaggi che incontrano Cristo come ci documentano e raccontano i vangeli. Solo quell'uomo salva e del resto questa certezza della sua presenza è ciò che rimette in moto la storia di quegli uomini – gli apostoli – dopo il dolore per la sua morte.
La carne indica una presenza, qualcosa di concreto, tangibile, visibile e per sperimentare il Cristo non possiamo farlo se non dentro una carne che è la sua carne oggi nella storia, la carne della Chiesa che è la carne di Cristo, il suo corpo. Cambiano le circostanze ma non il metodo fatto di contemporaneità (Cristo presente), di corrispondenza (come l'esperienza della peccatrice), di un sentirsi guardati come da nessun altro. La diversità dello sguardo di Cristo diventa la diversità di un'umanità nel rapporto con la quale vivere la stessa corrispondenza e sperimentare la stessa tenerezza. Perciò quell'umanità è "eccezionale", cioè e un'eccezione rispetto al fatto che solitamente la corrispondenza con le attese originali del cuore non accade. Perciò abbiamo sempre bisogno di questa carne, per non essere risucchiati dal nulla, perché la certezza di una sproporzione finalmente vinta, di una risposta finalmente non solo ipotizzata ma trovata, di un infinito non solo implicato nella domanda ma realmente presente, solo questo ci salva, cioè ci strappa dal nulla vuoi perché ci corrisponde (letteralmente: "risponde al cuore"), vuoi perché ci richiama permanentemente a non trascurare il desiderio, cioè la domanda. E questa, dice don Giussani, è una cosa mirabile. Leggiamo in Una strana compagnia: «la sua luce, la luce della fede, l'energia della fede è come se non riuscisse a penetrare l'oscurità o l'ottusità della nostra anima, del nostro cuore. Per questo una grazia si è aggiunta alla grazia: alla grazia della fede si è aggiunta per noi la grazia della nostra compagnia la quale – ed è una cosa mirabile – non ha che uno scopo, quello di richiamarci continuamente alla fede come vita, di non lasciarci abbandonati alla nostra distrazione, di non lasciarci fuorviati dalle nostre interpretazioni e dai nostri progetti, di non lasciarci stremati e resi solitari dalla nostra debolezza. Che grazia, Signore, hai aggiunto alla grazia dell'incontro con Te! Una compagnia che sia vera amicizia, cioè aiuto nel cammino a Te» (117).
Una carne, quella di Cristo, dentro una carne, quella della nostra compagnia, quella della Chiesa. Un luogo che ti rende presente quello che conta e la cui visibilità ti riprende sempre, ti aiuta a non distrarti, ti educa a vivere prendendo sul serio il grido del tuo cuore. Il cristianesimo è una questione carnale, non è una dottrina, regole da rispettare, testi da commentare; è quell'incontro che ti cambia la vita e se dici incontro dici persona, dici carne. Solo questo ci strappa dal nulla, da quella tentazione permanente da cui siamo richiamati solo dentro una vita che attesta che una diversità è possibile, che la risposta al desiderio è presente e tante volte è qualcosa di ben più grande di quello che potevamo mai aspettarci per la nostra vita.
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