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By antonio.sabetta3 Dicembre 2022In Editoriale

Editoriale – 121

 

Ritiro di Avvento

(Larino, 3 dicembre 2022)

 

Non so se ci avete mai fatto caso, ma gli episodi più significativi che i vangeli raccontano relativamente ai tre anni di vita pubblica di Gesù sono rappresentati da incontri. È vero che Gesù ammaestrava le folle, disputava con i farisei e i sadducei sui grandi contenuti della fede ebraica del suo tempo (la legge e il tempio) però per chi lo ha seguito tutto è iniziato da un incontro personale. L'elenco sarebbe davvero lungo ma ne voglio ricordare alcuni: il lebbroso di Mc 1, l'emorroissa, la donna sirofenicia, l'epilettico indemoniato, il cieco di Gerico, il centurione che si reca da Gesù per chiedere la grazia per il suo servo (esempio di fede perfetta lodata da Gesù) e infine Zaccheo.

Se consideriamo attentamente la dinamica e la struttura di questi incontri vediamo che il più delle volte nascono dalla coscienza del proprio bisogno, dall'urgenza della domanda investita dalla circostanza imponente e impellente che muove quelle persone verso Gesù. Un incontro nasce dalla domanda: «Senza una coscienza di noi stessi come bisogno, non possiamo accogliere con verità il dono di Cristo, l'incontro in cui Cristo si rivela essere per noi, come per Marta, l'Unico necessario al cuore, il solo di cui abbiamo veramente bisogno, di cui siamo bisogno» (Esercizi, p. 18). Dove non c'è questa domanda o non accade niente (tutte le volte che Gesù non accetta coloro che decidono autonomamente di seguirlo) o se accade anche un miracolo non ce ne accorgiamo (il caso dei nove lebbrosi purificati lungo il cammino ma che non si volgono indietro per ringraziare). Solo se c'è la domanda si può riconoscere Cristo come la sola cosa necessaria che risponde al bisogno che siamo, più che abbiamo. Questa necessità di Cristo è come se avesse un duplice aspetto; Egli cioè è necessario sia perché risponde e corrisponde al desiderio fondamentale del cuore e della vita, sia perché solo Cristo ci può dire cosa realmente desidera il nostro cuore, cosa è veramente necessario. Chi è necessario ti dice anche che cosa è necessario, perciò solo la familiarità con Lui (e la familiarità nasce da un'affezione poiché si diventa familiari solo di coloro a cui si vuol bene, non basta che ci vogliano bene, dobbiamo anche e soprattutto voler loro bene) ti fa capire di cosa hai realmente bisogno, cosa ultimamente desidera il tuo cuore inquieto, cosa non cancella ma riempie di senso la tua inquietudine.

Del resto una cosa del genere appartiene alla dinamica della vita. La vita ci propina sempre nuove circostanze e situazioni rispetto alle quali ci poniamo con una domanda perché mai sappiamo cosa sia giusto fino in fondo dire o fare ed è rispetto a questa domanda generata dalla realtà che Cristo si pone come la sola ed unica risposta necessaria. Dunque le risposte non ci sono date perché la nostra inquietudine/domanda cessi, ma perché possiamo riconoscere un senso a quel tarlo che ci rode ma non ci corrode, poiché sappiamo che c'è una risposta a quella domanda radicale che implora il realizzarsi (ciò senza cui non è possibile vivere veramente) e che quella risposta è la mia, non devo sperare di incontrarla, e per pura grazia ha fatto irruzione nella mia vita come un punto di non ritorno, che ha la pretesa di scandire anche le pieghe più recondite, al punto che nulla si sottrae al suo sguardo e noi non possiamo fuggire dalla sua presenza. Egli c'è e c'è per me.

Mi ha sempre colpito una riflessione di Lutero sull'eucarestia. A chi gli chiedeva che senso avesse il sacramento se Cristo ci aveva salvati, perdonati e redenti con il dono totale di sé sulla croce, Lutero risponde che quel perdono ci viene donato nel vangelo dove la parola della croce è predicata e nel sacramento dove il perdono viene elargito. Perciò se voglio ottenere che i miei peccati siano perdonati non devo correre alla croce, non devo attenermi alla memoria della passione di Cristo, ma devo correre al sacramento o all'evangelo, perché lì trovo la parola che mi dona quel perdono che è stato acquisito sulla croce. Infatti per quanto l'evento sia già accaduto è come se non fosse successo niente per me, finché quell'evento non mi viene distribuito, perciò solo quando ricevo il calice che contiene il sangue reale (non spirituale) di Cristo ricevo il nuovo testamento, cioè la remissione dei peccati e la vita eterna.

Per rendere più comprensibile e tradurre ciò che dice Lutero: il sacramento rende presente per me ciò che è presente in sé (la salvezza). Così la nostra compagnia, il movimento fatto di volti amici, rende presente per me ciò che altrimenti resterebbe presente in sé ma ultimamente estraneo a me. Che grande grazia! E noi stiamo qui a roderci con le nostre dietrologie sul decreto del dicastero e le indicazioni della Santa Sede. Ma chi se ne frega! Non è certo la forma che struttura il carisma e lo istituzionalizza a fare o a cancellare la fecondità di un carisma, ma è la responsabilità che tutti dobbiamo avere verso il dono che ci è stato fatto gratuitamente. E se la storia farà finire CL non sarà certo per i decreti della Santa Sede. Una vertigine di responsabilità verso tutti, perché noi abbiamo incontrato quello che il cuore desidera e siamo debitori verso tutti di una cosa del genere.

 

Di una sola cosa il nostro cuore ha bisogno: di capire chi sono, che senso ha la vita, di dare una spiegazione al "misterio eterno dell'esser nostro", quella domanda originaria e ineludibile senza la quale non si vive. Lo dice il poeta negli immarcescibili versi del Canto Notturno: a che vale la vita, dove tende il "vagar mio breve" – la nostra vita contingente e irrilevante rispetto all'universo sterminato – ma anche il corso immortale della vita, ovvero il mondo intero e noi nel mondo. E soprattutto il senso del "patir nostro", «che sia questo morir, questo supremo / scolorar del sembiante, / e perir dalla terra, e venir meno / ad ogni usata, amante compagnia» (vv. 65-68). E ancor di più che senso ha quella domanda che non ci dà tregua e pace, come uno sprone che quasi ci punge e ci diene dolorosamente inquieti. È la ferita che ci portiamo dietro nella nostra solitudine come la descrive P. Verlaine (cf Passeggiata sentimentale), una ferita che grida e teme, grida la sua domanda, teme di non guarire, di non trovare un senso al suo dolore (leggere versi Verlaine).

 

Solo Cristo compie e lo fa in un modo che non cancella la domanda ma la rilancia. La domanda è il metodo, quindi rimane sempre. Cristo la compie ma allo stesso tempo la approfondisce perché lui ti fa capire chi sei e tu vuoi capire ancora di più chi sei in forza dell'incontro con Lui. Cristo ti rivela il cuore, ti fa guardare oltre e tu ti capisci di più e vuoi capire di più. Agostino per primo coniò due espressioni diventate "canoniche": intellectum quaerens fidem e fides quaerens intellectum. La domanda ti orienta a Cristo, all'incontro con Lui, perché senza domanda non c'è tragedia che tenga (cf l'intervento di A. Polito sui funerali del ragazzo a Roma). Allo stesso tempo fides quaerens intellectum ci dice che dall'incontro fatto nasce il desiderio di capire, di andare a fondo di Cristo, perché più lo capisco più mi capisco, più divento familiare con lui e più divento familiare con me stesso. E questo accade nella concretezza del reale, non astrattamente, perché è sempre la realtà che verifica l'incontro fatto, così come è dalla realtà che prende forma compiuta la domanda. Se è opera, e allo stesso tempo è se opera.

 

Se Cristo non muove, commuove e sconvolge, vuol dire che non l'hai incontrato anche se sono 35 anni (come nel mio caso) che fai il movimento. Lo puoi conoscere, ne puoi riconoscere la grandiosa potenza speculativa (come direbbe il filosofo), ne puoi rimanere affascinato perché solo in lui, direbbe Kant, l'ideale morale che l'uomo desidera e per cui è fatto, si è fatto concretezza, carne. Ma alla fine rimane il suo esempio, non l'incontro con lui. Occorre passare dal conoscere Cristo all'incontrare Cristo e l'incontro definisce un avvenimento presente: «Cristo, questo è il nome che indica e definisce una realtà che ho incontrato nella mia vita. Ho incontrato: ne ho sentito parlare prima da piccolo, da ragazzo, ecc. Si può diventare grandi e questa parola è risaputa, ma per tanta gente non è incontrato, non è realmente sperimentato come presente; mentre Cristo si è imbattuto nella mia vita, la mia vita si è imbattuta in Cristo proprio perché io imparassi a capire come Egli sia il punto nevralgico di tutto, di tutta la mia vita. È la vita della mia vita, Cristo. In Lui si assomma tutto quello che io vorrei, tutto quello che io cerco, tutto quello che io sacrifico, tutto quello che in me si evolve per amore delle persone con cui mi ha messo» (Giussani citato a p. 20). Si veda quello che ha detto il Papa interpretando il senso dell'espressione Giussani "uomo carismatico": «da dove veniva il suo carisma? Proveniva da qualcosa che aveva vissuto in prima persona: da ragazzo, a soli quindici anni, era stato folgorato dalla scoperta del mistero di Cristo. Aveva intuito – non solo con la mente ma con il cuore – che Cristo è il centro unificatore di tutta la realtà, è la risposta a tutti gli interrogativi umani, è la realizzazione di ogni desiderio di felicità, di bene, di amore, di eternità presente nel cuore umano. Lo stupore e il fascino di questo primo incontro con Cristo non lo hanno più abbandonato. Come disse alle sue esequie l'allora Cardinale Ratzinger: "Sempre don Giussani ha tenuto fisso lo sguardo della sua vita e del suo cuore verso Cristo. Ha capito in questo modo che il cristianesimo non è un sistema intellettuale, un pacchetto di dogmi, un moralismo, ma che il cristianesimo è un incontro; una storia d'amore; è un avvenimento". Qui sta la radice del suo carisma».

 

Il luogo dove accade l'incontro è la quotidianità: la banalità delle circostanze, le cose più feriali e ordinarie come il cenare. Lì Cristo ti chiede, anzi ti propone, una preferenza per lui. Pensiamo a Zaccheo: nessun roveto, nessuna caduta da cavallo, nessun angelo o segno dal cielo ma una circostanza "quotidiana" dentro la quale risuona una "attrazione misteriosa" per cui Zaccheo si alza e si converte: "do la metà dei miei beni ai poveri, restituisco quanto ho rubato quattro volte". La salvezza è entrata in questa casa: il miracolo dell'incontro, il nuovo inizio che mi mette alla sequela, alle calcagna di colui che ho incontrato.

L'incontro è l'inizio, è l'intuizione originaria che apre un cammino di verifica, cioè di sequela. Cosa verifica l'intuizione dell'inizio, cosa la rende vera? La sequela. Se non seguiamo non possiamo verificare ed è chiaro che l'inizio rimane sospeso. La verifica non è nel paragone del reale con l'intuizione dell'inizio ma nella sequela. Se quell'incontro è stato il luogo della corrispondenza, della domanda finalmente accolta, è a colui che ho incontrato che devo sempre tornare per riaffermare la verità dell'intuizione.

Senza la sequela l'incontro abortisce, vuol dire che non è stato autentico, non è avvenuto. Magari lo hai conosciuto ma non lo hai incontrato. Quante volte nella vita abbiamo incontrato o fatto esperienza di qualcosa di bello e vero ma poi non siamo andati fino in fondo, non ci siamo mesi in gioco. Non basta riconoscere il vero, ci vuole la decisione della libertà che non è "una volta per tutte", ma accade e riaccade rispetto ad ogni gesto, ad ogni circostanza, ad ogni proposta che ci raggiunge da quell'origine. Ci dobbiamo mettere in gioco costantemente. Per fortuna e per grazia è come se la nostra vita non fosse abbandonata a sé stessa ma sostenuta, aiutata, accompagnata dall'amicizia con coloro che vivono il nostro stesso dramma. Così, ad esempio, certe cose magari ci risultano pesanti, a volte incomprensibili, non avvertiamo dove sia il bene per noi, poi però sono i nostri amici (i primi testimoni) che ci richiamano ed è dentro quel rapporto che la nostra libertà è accompagnata a dire sì, a seguire. Anche per questo abbiamo bisogno della compagnia di coloro che vivono, cercano ed hanno incontrato quello che anche noi viviamo, cerchiamo ed incontriamo. Da solo ti perdi, non ce la fai, perché la tua libertà è più potente del desiderio del cuore ed è rispetto ad essa ti scorpi più fragile.

Mi colpisce sempre il fatto che anche nell'ottimismo moderno verso l'uomo, che durerà fino all'Ottocento (la modernità compiuta) la ragione per quanto sia indebolita non è mai compromessa del tutto, mentre lo è la libertà, la cui debolezza è all'origine della decadenza umana. Non sottovalutiamo mai il ruolo e il rischio della libertà, non pensiamo mai che le cose vengono da sé senza la libertà, senza la decisione ogni giorno. «La scelta di Cristo è scelta di Lui nella totalità della sua Persona, cioè la scelta di Lui presente, di Lui che chiede di essere presente in tutta la mia vita, cioè che chiede di essere accolto» (Esercizi, p. 34).

Grazie a Dio le occasioni per la nostra libertà fioccano e anche se sbagliamo o ci giriamo dall'altra parte, Cristo non si stanca mai. Ma non è la stessa cosa dire sì o aspettare la prossima occasione. La verità è che chi si mette in gioco, cioè chi segue, cresce. Questo è il punto! Noi non cresciamo perché non seguiamo. Cambiamo, perché la vita ci costringe a cambiare, ma non cresciamo, siamo sempre gli stessi: stesse obiezioni, stesse reazioni, stesso modo di ragionare, stesse cose che diciamo. Se non cresciamo è perché non seguiamo.

Agli esercizi Lepori faceva il paragone tra la Marta della cena e la Marta dell'episodio della risurrezione del fratello, evidenziando come nei circa due anni di distanza fra i due episodi, Marta fosse "cresciuta", cioè si fosse convertita, dove «la crescita del suo cuore non è stata un salto fuori dalla sua umanità, ma un cammino della sua umanità, del suo temperamento, dei suoi rapporti, anche dei suoi difetti» (p. 37). Ne è segno la sua professione di fede, quella consegna non rassegnata ma espressione di una coscienza grande e matura, che lei fa di sé a Cristo con un io "umile e certo". Risuona la domanda onnipresente di Cristo attestata dai vangeli: "credi tu questo?". La libertà è la risposta a questa domanda. È un cammino che accade come sequela.

 

Il luogo della sequela è la Chiesa, altrimenti Cristo è un mio pensiero. Noi seguiamo il movimento e il movimento segue la chiesa. La compagnia del movimento non avrebbe senso senza la chiesa – sarebbe il luogo della cena insieme, delle vacanze insieme, dei gesti insieme – però la chiesa resterebbe un'ultima astrazione senza la compagnia del movimento. È una circolarità necessaria che non capiamo se la decliniamo nella dialettica autorità/carisma, come a dire che il carisma ci porta avanti e l'autorità della chiesa ci mette il freno. Non c'è Cristo senza chiesa, ma non c'è chiesa senza movimento. Vivere la sequela a prescindere dal movimento e a prescindere dalla chiesa è seguire sé stessi, non Cristo, perché Dio, come direbbe Lutero, ha scelto l'oggettività esteriore per farsi conoscere e ciò che è esteriore (Parola, sacramenti, Chiesa) precede l'interiore, per cui chi pensa di seguire Cristo senza questa oggettività ineludibile segue la sua idea di Cristo ma non Cristo. Il carisma è l'interiore aiuto della grazia che è dato a ciascuno di noi attraverso la santità di un uomo la cui fecondità è attestata dalla generazione di una posterità.

Ma la prima fecondità del carisma è in noi, poiché dalla sequela alla via indicata dal carisma la vita si ordina: «La vita si ordina con armonia e bellezza, anche in mezzo a mille turbolenze, quando accogliamo veramente Cristo in noi, nella vita, in tutta la vita, come l'Unico necessario, come Colui che solo risponde al bisogno di senso e di vita del nostro cuore. Tutto si ricompagina attorno a Lui, si ricompagina in relazione a Lui. Solo Gesù sa il posto giusto di ognuno di noi e di tutto quello che fa la nostra vita, dal capello alla moglie, dalla scarpa al lavoro, dal caffè alla politica… tutto» (Esercizi, 42-43).

È il nostro cambiamento il primo segno della bontà e grandezza del carisma. Ed è la missione il compito che ci viene dal carisma e che ci affida il carisma. Il papa ha da sempre ripetuto che annunciare il vangelo è dovere dei battezzati ed è un diritto di ogni uomo essere aiutato a fare l'incontro con Cristo. Allora la missione è segno della fedeltà al carisma.

Senza questo anelito, senza questa urgenza avvertita come la più importante allora noi facciamo opposizione e tradiamo il carisma. Non è che la vitalità del carisma la misuri contando gli iscritti alla fraternità o quanti universitari vanno agli esercizi, però il desiderio di far conoscere Cristo a tutti e l'industriarsi in tal senso, questo è ciò che davvero conta. Trovare modi e linguaggi, ripensare i gesti e le forme della nostra presenza, non con l'ansia dei numeri (chi se ne frega) ma con il desiderio di portare il mondo a Cristo attraverso la forma del carisma, come è accaduto per noi.

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