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By antonio.sabetta10 Dicembre 2023In Editoriale

Ritiro di Avvento

(Guglionesi, 10 dicembre 2023)

Il tema degli esercizi spirituali, la ripresa della cui prima lezione è in filigrana la trama di quanto andrò dicendo, è “Gesù origine e compimento della fede”. Già la parola origine ci dice che la fede è un rapporto con Lui, che nasce dall’incontro con Lui come ci ricordava Benedetto XVI all’inizio della sua prima enciclica Deus caritas est. Se la fede è definita dal rapporto con Gesù c’è da chiedersi che valore abbia questo rapporto, detto altrimenti che nesso esso ha con la nostra vita quotidiana. Poiché sono i rapporti che fanno la qualità della vita, se la fede è un rapporto, tale rapporto deve e vuole avere senso e valore nella vita quotidiana, per incidere (lasciare il segno) nella vita.

Un rapporto evoca una presenza: se la vita è rapporto allora la vita è costellata di presenze il cui peso però varia a seconda dell’importanza che riconosciamo loro per la nostra vita. Non ci può essere rapporto con un’assenza, con qualcosa che non abbia carnalità. Come si sta in un rapporto: portando la propria vita e sperando, desiderando, che da quel rapporto venga un bene, una direzione, un aiuto per la nostra vita. Un rapporto implica la vita e configura un “cammino” nella fedeltà al quale si costruisce il rapporto. Camminare vuol dire essere accanto e dietro ad un Altro. La fede è cammino, non è un fatto puntuale, un “sì” detto una volta per tutte e poi è come se la vita procedesse per inerzia. Con tutto l’attrito che c’è ti fermi poco dopo! Non sopravvive una relazione se non si costruisce in un faticoso ma affascinante cammino, figuriamoci il rapporto con Cristo, se si riduce al “sì” detto un tempo mentre la vita va per i fatti suoi! A volte capita che dopo una vita insieme due persone si scoprano o si ritrovano quasi come sconosciuti, figuriamoci se questo non accade con Cristo. Chi se ne va è perché se n’è già andato.

 

Questo cammino è certamente il mio, nessuno può farlo al mio posto, ma non è solo il mio; sono dentro una nube di testimoni, di persone che hanno camminato e camminano come e con me nella fede, la cui vita tenta di mettersi in gioco rispetto a ciò che più conta. Non solo non siamo soli ma il nostro cammino è dentro un popolo. Dio, come ripete la Chiesa, non ci ha voluti salvare prendendoci singolarmente, ma attraverso un popolo che è il sacramento, cioè il segno attestante la sua presenza, una realtà che non solo ci rimanda a Lui ma ce lo rende ontologicamente presente, tanto che la Chiesa è il suo corpo come lo è l’eucarestia, diverso nella forma ma uguale nella sostanza. Perciò all’invisibile si va sempre e solo attraverso il visibile e pertanto di questo popolo non possiamo fare ma meno, come non possiamo fare a meno dell’eucarestia. Un popolo vuol dire facce concrete e una storia a cui appartengo e a cui desidero che anche altri possano appartenere.

La fede è rapporto con Cristo (nel vangelo spesso ritorna la domanda: “credi tu che io posso fare questo”?) ma questo rapporto è possibile solo nella mediazione della compagnia dei credenti, nella Chiesa. Del resto a chi credo, a chi mi affido, chi riconosco Signore della vita se non Colui che un altro mi ha annunciato? La fede viene dall’annuncio (Rom: fides ex auditu) sia perché si incontra Cristo in virtù del fatto che un altro te lo comunica (“vieni e vedi”: ricordo bene per me cosa è stata questa cosa, era il 16 maggio 1986 e ricordo che quell’incontro è stato per me dire sì ad una persona che i proponeva di partecipare ad un gesto concreto, la sdc, e quel giorno era a tema proprio l’inizio del cap. I del senso religioso con la citazione di Alexis Carrell). Non solo la risposta ad un annuncio ma il sì a ciò che mi veniva annunciato e che non decidevo io. Per questo non c’è Cristo senza Chiesa e il Cristo che incontri e in cui credi è quello che ha il volto, le fattezze, che la Chiesa – il suo popolo – ti annuncia. Vi siete mai chiesti: perché leggiamo i Vangeli canonici e non gli apocrifi? Perché lo impariamo dalla Chiesa. Del resto per i primi decenni del cristianesimo la fede viveva esclusivamente della testimonianza di coloro – gli apostoli – che erano stati appunto testimoni oculari, che avevano incontrato il Signore.

Senza la compagnia dei credenti la fede è mero spiritualismo e Cristo alla fine ha le sembianze che piace a te attribuirgli. Allo stesso tempo l’essere parte di un popolo senza la fede, senza accogliere la ragione prima ed ultima del perché quella compagnia sussiste, prima o poi ci rende amici del calcetto (o del padel, come si preferisce dire oggi), la compagnoneria (come ripeteva Giussani), che non va da nessuna parte, infatti ad un certo punto di stufi, magari dopo aver dato più importanza a quelle cose che ad altre molto più essenziali.

È interessante questa immagine della nube, che ha un significato preciso e particolare nell’AT. Da un lato la nube è segno della presenza di Dio: dove c’è la teofania c’è sempre la nube che ci dice che Dio è lì presente. Allo stesso tempo però la nube anche nasconde, perché Dio rimane al di là del visibile nel visibile, ulteriore rispetto al visibile, altrimenti identifichi il visibile con l’invisibile, la nube con Dio, i testimoni con Cristo.

 

Ma torniamo alla fede. Nel Vangelo c’è come un ritornello: “va’, la tua fede ti ha salvato”, “grande è la tua fede”, fino alla domanda angosciante: “ma il figlio dell’uomo quando tornerà sulla terra troverà la fede?”. La fede decide tutto perché è lo spazio che facciamo a Cristo, è l’apertura che permette a Cristo di entrare, per venire e salvarci. Dove non c’è la fede non può accadere nessun miracolo, come ci racconta Mc 6, l’episodio di Gesù a Nazareth: Gesù non vi poté operare nessun miracolo a motivo della incredulità die nazaretani. Il non aver fede è l’ostacolo insormontabile, perché si tratta della libertà che dice no, che non si mette in gioco. In tal senso la fede implica sempre la libertà, è un “assenso reale” che necessità della libertà cioè del coinvolgimento di tutto il mio essere. Il card. Newman nella Grammatica dell’assenso, un’opera spesso citata ma molto complicata (io l’ho letta e ci ho scritto) distingue tra assenzo nozionale e assenso reale. La condizione dell’assenso è l’apprensione, dove si apprende quando si conosce il predicato della proposizione. Poiché i termini di una proposizione possono indicare o non indicare cose particolari, abbiamo l’apprensione reale e nozionale. Poiché è proprio della natura umana essere colpiti più dal concreto che dall’astratto, più dalle cose che dalle idee, la forza dell’apprensione reale è superiore a quella dell’apprensione nozionale perché gli oggetti con le esperienze che ne facciamo e le immagini colpiscono e occupano la mente più delle idee e delle astrazioni, e del resto «le idee intellettuali non possono competere in efficacia con l’esperienza dei fatti concreti» (871). Inoltre gli assensi reali sono di carattere personale: mentre l’apprensione delle nozioni è un atto ordinario della nostra natura, e dunque possiamo apprendere in modo “anonimo” facendo ricorso alla comune facoltà dell’astrazione, nel caso dell’assenso tutto dipende dall’esperienza personale che varia da soggetto a soggetto, ed è proprio dell’individuo (cf 991). Ciò che è in comune (la razionalità, il linguaggio, il crescere nel corpo e nello spirito secondo tappe successive) non fa la persona; sono invece gli accidenti a fare il singolo, ovvero la sua storia personale, la sua vita contingente, le sue particolari e irriducibili esperienze, in altre parole tutto ciò che ha a che fare con la singolarità di questo uomo e che inerisce alla sua vita pratica. Perciò gli atti di assenso nozionale non incidono nel comportamento mentre quelli di assenso reale sì, poiché le immagini in cui l’assenso reale vive «che rappresentano la cosa concreta, hanno il potere del concreto sulle affezioni e sulle passioni, e per loro mezzo diventano indirettamente operative» (1001). Proprio per questa inerenza al pratico, a differenza dell’inferenza che, concernendo idee, non giunge ai fatti e si ferma alla superficie e alle apparenze, l’assenso si rivolge ad oggetti che suscitano devozione, destano le passioni e rinsaldano gli affetti, pertanto preparano le azioni e formano il carattere (cf 1003).

 

L’assenso reale mette in gioco la libertà perché non si può assentire senza la libertà. Chi non è libero non può credere. La fede è una questione di libertà che riconosce la Sua presenza, poiché la fede è riconoscere Cristo, credere in ragione di quella Presenza, prima ancora del credere a parole o a gesti concreti. La fede allora è un riconoscimento ma amoroso, poiché implica l’affezione, ovvero il coinvolgimento di tutto il nostro essere. La fede è in definitiva il riconoscimento del Risorto presente secondo la testimonianza attestata dall’esperienza degli apostoli. È il riconoscimento del Signore risorto il punto di svolta che conferisce senso e significato a tutto quello che era accaduto prima di Pasqua. I discepoli non credono al risorto in forza dell’evidenza sufficiente a cui erano pervenuti stando con Lui, ma credono in Lui quando il Signore si fa di nuovo presente ed è la sua presenza che sono chiamati a riconoscere. Solo la certezza che Egli è presente sostanzia quello che siamo e i gesti che come compagnia, popolo viviamo e proponiamo. A chi crede è dato il compimento totale della sua umanità.

Il fatto che da un lato Gesù rimproveri i suoi discepoli per la loro poca fede, fino a scandalizzarsi della loro incredulità, e che dall’altro tutti i protagonisti degli incontri con Gesù o sono lodati per la loro fede o chiedono “aumenta la mia fede”, “credo, aiutami nella mia incredulità”, ci dice quanto ultima, decisiva sia questa parola, che è come l’anima della vita e ciò che resta alla fine della vita. Mi colpisce sempre l’esperienza di Paolo che quando percepisce che la sua vita sta per compiersi nel segno della testimonianza da rendere a Cristo, facendo quasi un bilancio di tutta la sua vita, non fa riferimento alle comunità che aveva fondato, alle opere che aveva realizzato, ma si preoccupa di dire “ho conservato la fede”, come se questa – la fede – fosse la cosa che più gli urgesse, la più importante, perché senza fede non c’è il riconoscimento del Cristo presente, e dunque è come se si perdesse l’essenziale.

 

Proprio perché la fede è poca ma è decisiva, non possiamo che domandarla. Ma in che cosa consiste, come i declina questa domanda di avere più fede? Si declina nel domandare che nel seguire le tracce di un evento che accade ora si sveli il volto del Signore dentro l’avvenimento e che questo camminare e seguire mi porti ad un rapporto reale con lui. Questa è la preghiera che l’avvento riassume: “vieni Signore Gesù”, che sono anche le parole conclusive dell’Apocalisse, come a dire che tutta la storia della salvezza si compendia in quel grido dall’inizio alla fine, dal bisogno di essere salvato del primo uomo, all’ultimo dei cristiani che vivono di questa domanda.

La fede è dunque la domanda che il Signore venga nella nostra vita ed è qualcosa che puoi solo chiedere, non è opera tua, non è la tua virtù, ma una cosa che devi chiedere, mendicare perché ti manca. E poiché ciò che ti manca è l’essenziale, allora davvero tu che chiedi sei mendicante, perché se ti manca l’essenziale ti manca tutto; puoi avere tutto ma se ti manca l’essenziale il resto è solo “cure palliative”, che ti addormentano per non farti sentire la mancanza che priva di senso, svuota di valore, azzera la bellezza della vita. E poiché quello che davvero conta lo puoi solo chiedere a un Altro, non c’è più l’ansia moralistica di sentirsi adeguati. Chi non ha niente attende e basta, e se non hai niente chi ti dona qualcosa non può pretendere condizioni in cambio, proprio perché non hai niente. Certo, il dono genera un compito, una risposta (una responsabilità) perché ciò che hai ricevuto se non lo metti a reddito lo perdi, la vita te lo erode.

Ci ricordiamo tutti la parabola dei talenti, che possiamo leggere anche dal punto di vista della fede. Intanto i tre a cui sono affidati i talenti sono dei servi e dunque per definizione non posseggono nulla e non possono accampare nessuna pretesa verso il loro padrone. Se dispongono dei talenti è perché qualcuno glieli affida e in definitiva è a chi glieli dà che li dovranno restituire ed è sempre a chi glieli affida che dovranno dare spiegazioni. La cosa interessante, che nella versione di Luca registra anche lo stupore e la velata protesta dei testimoni del gesto, è che a colui che aveva sepolto il talento impaurito della responsabilità che il padrone gli aveva messo addosso, pur trattandosi di qualcosa di molto inferiore rispetto a quello che aveva chiesto agli altri due servi, gli viene tolto quel poco che gli è stato dato e viene dato a chi ha già molto, perché a chi non ha verrà tolto anche quello che ha, cioè se la fede non la metti a reddito, non la investi e non ci investi, la perdi. Il vero biasimo verso il terzo servo non riguarda l’aver perso o trascurato ciò che il padrone gli aveva affidato, ma non aver riconosciuto che dietro quel dono c’era la grande occasione della loro vita che da servi potevano ritrovarsi a gestire non dei talenti ma intere città poiché se tu investi, coltivi, rischi, ti metti in gioco, quel dono si moltiplica. Ed è interessante un altro dettaglio che incontriamo nella versione della parabola presente nel vangelo di Matteo: il padrone dà ai suoi servi “secondo la capacità di ciascuno”, cioè non pretende cose non alla portata dei servi ma dà a chi sa che può più rispondere al compito che gli deriva da ciò che ha ricevuto.

 

La fede in quanto domanda ci educa nella vita proprio in ciò che ne definisce il metodo, cioè la domanda. Se la fede, come ci ricorda la Chiesa è l’ob-sequium cioè, letteralmente (almeno così credo) il seguire (sequor) perché ci sono dei motivi, delle ragioni (ob in latino è la preposizione del complemento di causa) dell’intelletto e della volontà allora essa investe tutta la vita, è la “forma” della vita; ma allo stesso tempo poiché nessuno può credere senza la grazia dello Spirito Santo, senza l’aiuto di Dio, allora poiché il credere non dipende da te ma è dono di un Altro, devi chiederla. Dio non pone condizioni, la domanda è l’inizio permanente cioè il metodo. Naturalmente questa domanda sarà avvertita come la più urgente, la domanda decisiva nella misura in cui noi viviamo il reale; più facciamo esperienza più educhiamo la domanda, dove l’esperienza non è ciò che accade ma, come ci ha ricordato la sdc dei mesi scorsi, il paragone delle tue esigenze elementari educate (cf GDA) con ciò che ti accade e che trasforma il chronos in kairos, in occasione buona per te. Vi rimando alla GDA della Lombardia, in cui Prosperi riprende i tre elementi in cui Giussani vede il senso dell’esperienza cristiana: l’incontro con un fatto obiettivo, la percezione del significato del fatto e la coscienza della corrispondenza fra quel fatto e il mio io (p. 5).

Nei racconti evangelici di incontri con Cristo, la fede è come lo spartiacque e chi vive l’urgenza della circostanza non può che chiederla e la chiede guardando a Cristo, avendo come contenuto di questa fede la sua persona, ciò che lui è e può fare. Perciò la fede è essenzialmente fede in Gesù Cristo, domanda della sua presenza. La fede non inerisce primariamente a un contenuto ma al riconoscimento del Cristo presente, proprio perché il darsi a vedere di Dio in Cristo non consiste nel dettare delle verità da credere ma nel manifestare se stesso e la fede è il riconoscimento di quella “gloria” presente che, come ripeteva Balthasar, citando la liturgia, ci rapisce all’amore delle realtà invisibili, cioè all’affezione verso il senso delle cose che è Cristo stesso; ma questo accade, dice sempre la liturgia, perché “conosciamo Cristo visibilmente”. Riconoscere Cristo presente nella carne di un popolo, di una compagnia di amici che vive della mia stessa domanda è ciò che cambia la vita. Non sono le circostanze che determinano il cambiamento ma la vita vissuta con la coscienza, la consapevolezza che Lui c’è, è presente, “è dato”. Per me questa rimane la cosa più difficile perché avverto che sottilmente sono le circostanze a dare spessore e valore alla sua presenza mentre invece è Lui che dà senso, quali che siano le circostanze. Certo, la differenza non la percepisci finché tutto scivola nella sua routine, ma quando poi succedono cose che ti sconquassano, beh lì viene fuori se Cristo ha la stessa forza. Se non ce l’ha è perché ha già smesso di dare consistenza alla vita, ha già smesso di in-formare la vita, anche se siamo assidui frequentatori della sdc e viviamo con dedizione e passione i gesti del movimento e della fede. Possiamo aver relegato la fede, come diceva Lepori, nel ripostiglio delle cose inutili che non buttiamo via ma di cui non sappiamo che farcene e infatti quando la vita ti costringe a svuotare i ripostigli la butti via perché in realtà non l’hai mai avuta. Quando la fede la metti da parte, come quando seppellisci il talento sotto terra, non serve più e allora è la vita che te la toglie poiché quando siamo alle strette resta solo l’essenziale ma se la fede non è il tuo essenziale, essendo l’essenziale in sé, a te non resta nulla, se non cumuli di macerie, un’infinità di inutilità che non valgono la pena.

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